Sugli schermi in Italia "Il figlio dell'altra" della regista francese Lorraine Lévy
E’ la storia di Joseph e di Yacine, è la storia drammatica di due famiglie che, su
fronti opposti, si trovano costrette a dialogare per dare una speranza ai due ragazzi
e, attraverso loro, a due popoli in guerra: da qualche giorno è sugli schermi italiani
“Il figlio dell’altra” della regista francese Lorraine Lévy, un film che crede nel
dialogo e diventa un mezzo per abbattere i muri e condividere un futuro di pace. Il
servizio di Luca Pellegrini:
“Bene, cercherò
di spiegarvi i fatti. Il suo parto, signora Silberg, è stato contemporaneo a quello
della signora Al Bezaaz ed eravate in stanze contigue. Di conseguenza, siamo giunti
alla conclusione che ci sia una fortissima possibilità che i vostri due bambini -
per errore - siano stati scambiati, quando l’ospedale è stato evacuato”.
Lo
ammette il medico dell'ospedale di Haifa, dinanzi a una coppia di genitori ammutoliti:
i neonati sono stati scambiati. E' soprattutto il cuore delle due madri a spezzarsi,
ma anche a rivendicare con forza e dignità un ordine superiore, quello dell'amore.
Una è palestinese, una israeliana. Hanno cresciuto e curato e amato ciascuna il figlio
dell'altra. In una realtà politicamente e socialmente così diversa e dolorosa come
quella che contrappone i due popoli, nulla è scontato, tutto può essere tragico. Lorraine
Lévy ha sentito, ancor prima di scriverla e di girarla, la forza di questa storia,
i temi di drammatica attualità che affronta, penetrando con emozione, obiettività
e equilibrio le dinamiche interne alle due famiglie nei momenti di maggior dolore
e apprensione, di accoglienza e rifiuto. Nei titoli di coda la regista francese ringrazia
tutti coloro che hanno collaborato al film, con una postilla: "questa è stata la più
bella avventura della mia vita" Le abbiamo chiesto il perché. Ecco la risposta di
Lorraine Lévy:
R. – Parce-que, pour être tout a fait sincère, ça allait
au de la de la réalisation … Perché, per essere sincera fino in fondo, questa è
stata un’esperienza che è andata ben al di là della realizzazione di un film: aveva
alle spalle un’avventura umana, spirituale per me importante e che ha fatto sì che
questa avventura mi abbia trasformata. Come ho detto, ho veramente lavorato con persone
di ogni credo: con ebrei, arabi musulmani, palestinesi cristiani e tutte queste persone,
invece di essere separate a causa della loro fede, erano unite proprio per la loro
fede. Questo, in realtà, mi ha permesso di fare questo film, e anche di crescere …
D.
– Le madri affrontano subito la situazione: si guardano, si toccano. I padri fuggono
dalla realtà e dal dolore, anzi, si contrappongono. Ancora una volta è la forza delle
donne che ci apre ad un futuro più umano?
R. – Oui, c’est ce que je crois.
Je crois que les mères sont l’incarnation d’une vérité … Sì, è questo che io credo.
Credo che le madri siano l’incarnazione di una verità incomprimibile: loro danno la
vita, e a parte il fatto che danno la vita hanno, rispetto agli uomini, il vantaggio
che questa vita è fondamentale, è il senso stesso delle cose e bisogna proteggerla
di fronte a tutto! In questa storia, la prima reazione degli uomini è stata: “Ho perso
un figlio!”; la prima reazione delle donne è stata: “Abbiamo ritrovato un figlio”.
In definitiva, tutto il film è in questo spazio, tra la perdita e la conquista.
D.
– Un film sull’apertura e sulla speranza. Ne ha avuto la percezione mentre si trovava
in mezzo alla gente durante le riprese?
R. – Moi, d’abord, là-bas j’ai ressenti
d’une force vitale extraordinaire. … Prima di tutto, ho percepito una straordinaria
forza vitale. Poi, come ho detto, è stata la mia équipe a condurmi e la mia équipe
era composta di palestinesi e di israeliani, ed era tutta volta a questa speranza.
C’è una gioventù che è forza viva e io credo che sì, ci sia la speranza, e più che
la speranza, credo che ci sia la voglia dei giovani di vivere liberi e tranquilli.
Solo tranquilli.