Obama in Israele: la nostra alleanza è eterna. Manifestazioni antiamericane a Gaza
e in Cisgiordania
E’ nostro interesse essere al fianco di Israele, la nostra alleanza è eterna. Cosi
il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama a Tel Aviv nella sua prima visita da
capo della Casa Bianca nello Stato ebraico. Al centro dei colloqui con il presidente
Peres e con il premier Netanyahu: il timore per il nucleare iraniano, la crisi in
Siria e la questione palestinese. Clima teso a Gaza e in Cisgiordania: numerose le
manifestazioni antiamericane. In un messaggio ad Obama l'Assemblea degli Ordinari
cattolici di Terra Santa esorta Israele a rispettare il diritto internazionale. Graziano
Motta:
Benvenuto
caloroso ad Obama che sorprende le personalità convenute all’aeroporto di Tel Aviv.
Dice loro in ebraico:” E’ bello essere di nuovo nella terra d’Israele”. E’ questa
infatti la sua terza visita, ma la prima da presidente degli Stati Uniti, e la prima
del suo secondo mandato: particolari che sono stati sottolineati nei discorsi ufficiali,
per rappresentarne l’importanza in un momento in cui, dice Obama, “il cambiamento
in questa regione porta con sé una promessa ma anche un pericolo”. In effetti i pericoli
sono più d’uno, per la devastante guerra civile in Siria, l’espansione del fondamentalismo
e le tensioni politiche in Egitto, il programma nucleare dell’Iran. Gli Stati Uniti
rassicurano. “Siamo orgogliosi, dice Obama, di essere a fianco d’ Israele - che definisce
come “il più forte alleato e grande amico”, precisando però che questo “è anche nostro
interesse di sicurezza” – e ribadendo che la loro alleanza “ è destinata a mantenersi
eterna”. Anche il presidente israeliano Peres esalta “l’indistruttibile sostegno americano”.
In discussione c’è pure lo stallo da tre anni nel processo di pace con i palestinesi,
ma dietro le affermazioni di principio – per Obama “la pace deve arrivare in Terra
Santa”, per Peres “desideriamo vedere la fine del conflitto” – non si notano concrete
prospettive. Per questo oggi contro la visita di Obama cortei di protesta a Gaza di
tutti i movimenti politici palestinesi -Hamas, Jihad, al Fatah - e lanci di scarpe
a Betlemme contro un mega-poster che lo raffigurava.
Dell’importanza e dei
vari temi in discussione, Fausta Speranza ha parlato con la studiosa di Medio
Oriente, Marcella Emiliani:
R. – Obama deve
ridefinire la sua agenda mediorientale e ovviamente Israele è e deve rimanere un punto
fermo. Diciamo che il resto del Medio Oriente vorrebbe imporgli delle priorità: tra
queste priorità, la prima è quella che riguarda il processo di pace con i palestinesi.
Il problema, però, è che questo sembra essere l’ultimo dei temi che pressano in questo
momento l’amministrazione americana. Diciamo che i due punti più importanti sono quelli
che riguardano l’Iran e la Siria e in terzo luogo l’Egitto. Come ultimo punto c’è
certamente il processo di pace. Il nuovo governo israeliano ha già – a parole – aperto,
parlando di compromesso con i palestinesi. In realtà, nei fatti continua il processo
di colonizzazione della Cisgiordania, il che significa che di processo di pace in
questa fase non si può parlare.
D. – Dunque, prof.ssa Emiliani, quali possono
essere i frutti di questa visita di Obama in Israele?
R. – Si possono dire
quali siano le cose che Obama vuole da questo viaggio: se poi le porti a casa, questo
è un'altra cosa. L'obiettivo più importante è di frenare Netanyahu per un eventuale
attacco all’Iran. Netanyahu, da parte sua, vuole invece capire bene dagli Stati Uniti
fin dove concederanno all’Iran di procedere con il processo di arricchimento dell’uranio
per confezionare la bomba atomica. Netanyahu cerca una "red line" oltre la quale sapere
che gli Stati Uniti gli daranno l’ok per un eventuale attacco all’Iran. Quindi, si
sta parlando di un discorso molto importante e molto pericoloso.
D. – Invece,
da un colloqui sulla Siria cosa ci si può aspettare?
R. – In questo momento,
la cosa più pressante è che da parte dell’opposizione siriana ci si aspetta che gli
Stati Uniti armino l'opposizione stessa. Gli Stati Uniti non vogliono farlo, perché
sanno benissimo che in questa opposizione al regime di Assad ci sono dei jihadisti,
quindi persone che l’hanno giurata a morte non solo a Israele ma anche agli Stati
Uniti e che peraltro sono attestati vicino alle alture del Golan e quindi vicino ad
Israele. Su questo evidentemente gli interessi di Stati Uniti e di Israele concordano.
Però, c’è un problema di "timing". Finora, gli Stati Uniti nei confronti dell’opposizione
siriana si sono mantenuti molto sulle generali, molto tiepidi diciamo, perché molto
probabilmente privilegiano l’intesa con l’Iran: se armassero pesantemente l’opposizione
al regime di Assad, l’Iran chiuderebbe automaticamente le porte a un qualsiasi dialogo
con gli Stati Uniti. Quindi, è tutto un viaggio sul filo del rasoio, di questioni
strategiche che riguardano non solo l’intera regione, ma l’intero pianeta, perché
un Iran nucleare non fa certo piacere a nessuno. Sullo sfondo, poi, ci sono due problemi
enormi: uno, sono i dieci anni dell’anniversario dell’operazione “Iraq Freedom”, che
ha abbattuto la dittatura di Saddam Hussein, lasciando però un Iraq in preda a una
anarchia abbastanza sanguinosa, come si è visto anche nelle ultime ore dagli attentati
che ci sono stati. L’altro problema è relativo alle sorti di tutte le “primavere arabe”,
prima di tutto quella in Egitto. Chiaramente, l’interesse degli Stati Uniti è salvaguardare
l’accordo di Camp David, per questo hanno perfino sostenuto e finanziato i Fratelli
musulmani. Ma è evidente che se la deriva jahdista e fondamentalista islamica dovesse
aggravarsi - non solo in Egitto, ma anche in Tunisia – anche gli Stati Uniti dovrebbero
cambiare la loro strategia.