Card. Ravasi: la Chiesa ascolti il battito della mente e del cuore dei giovani
In Vaticano, si apre oggi la plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, dedicata
quest’anno alle “Culture giovanili emergenti”. Il presidente del dicastero, il cardinale
Gianfranco Ravasi, ha posto una particolare cura nell’organizzazione di un avvenimento
che intende stimolare la Chiesa a un nuovo e più attento ascolto dei giovani di oggi,
dei loro linguaggi digitali e della cultura che da essi scaturisce. Il porporato approfondisce
i temi della plenaria nell'intervista di Fabio Colagrande:
R. – Ho posto,
io, delle domande ai giovani. Le ho messe in Rete, queste domande. Ho ricevuto una
valanga di risposte, di reazioni. I nostri interlocutori non sono soltanto i mediatori
della comunicazione – cioè i giornalisti – ma sono loro, i giovani. E loro non sono
più lettori di quotidiani, non sono neppure grandi fruitori di televisione: sono soprattutto
giovani fruitori del linguaggio virtuale. E devo dire che questo dialogo che è stato
costruito ha – secondo me – un grande rilievo, soprattutto per noi, pastori. Perché
ci fa capire che tante volte l’importanza che noi diamo ad alcuni temi non è parallela
e condivisa da loro. Quindi, dobbiamo in qualche modo ascoltare di più la loro interrogazione.
D.
– C’è anche una responsabilità da parte del mondo adulto, rispetto a questa frattura
comunicativa che si è creata con i giovani, e parlo anche dell’ambiente ecclesiale…
R.
– Sicuramente. Io devo però subito dire e riconoscere che la cultura giovanile, il
fenomeno direi anche sociale giovanile, non è di facile decifrazione. Perché ha al
suo interno tutta una serie di contraddizioni. Sono, ad esempio, da un lato fortemente
individualisti però dall’altra parte seguono la massa, le mode di massa. Sono da un
lato fortemente – all'apparentenza – desiderosi di non avere vincoli di alcun genere
– ad esempio dal punto di vista etico – e poi hanno un senso fortissimo dell’amicizia,
della violazione del rapporto. Da un lato sono pronti, ad esempio, a celebrare la
libertà assoluta e dall’altra parte seguono molti stereotipi, già dall’abbigliamento
stesso. Sono un fenomeno molto complesso. E hanno dei linguaggi completamente nuovi:
io ne voglio ricordare uno, a cui vorrei dare particolare rilievo, che è quello della
musica. La loro musica che è diventato il maggior consumo in assoluto di forma culturale
musicale. Proprio per tutte queste ragioni, io penso che sia indispensabile che noi
adulti, noi generazioni precedenti, noi pastori anche, dobbiamo fare la fatica non
di metterli sotto una sorta di microscopio, ma di entrare al loro livello e incominciare
a sentire, un po’, com’è il battito della loro mente e del loro cuore.
D. –
Quindi, più ascolto dei giovani ma anche più responsabilità ai giovani, anche nel
mondo ecclesiale?
R. – E' questa, forse, anche una delle questioni che bisogna
aprire, perché da un lato noi abbiamo il compito di educarli, anche di guidarli, dall’altra
parte però, proprio perché la comunità ecclesiale non è fatta solo della gerarchia
– non è fatta solo degli anziani, come purtroppo accade spesso all’interno delle nostre
chiese, non è fatta soltanto di un pubblico femminile di una certa età – abbiamo bisogno
di richiamare questa presenza perché la Chiesa sia completa.
D. – Quindi, potremmo
dire: obiettivo della plenaria è favorire un nuovo incontro tra i giovani e la Persona
di Cristo, trovare nuovi linguaggi per annunciare la fede – se ne è parlato anche
al recente Sinodo…
R. – Il lavoro che noi stiamo facendo, che è un lavoro evidentemente
prima di tutto di analisi, è soprattutto per proporre due percorsi. Il primo è quello
dell’umanità: dare ai ragazzi ancora la consapevolezza che esistono dei grandi valori,
e questi valori sono valori etici, culturali, spirituali in senso lato. E in secondo
luogo, far capire loro il rilievo estremo che può avere proprio il cristianesimo.
Quelli che in gualche modo reagiscono con me in chiave religiosa su un tema religioso,
non su un tema etico-sociale generale, interloquiscono soprattutto parlando del fatto
che noi preti non siamo più in grado di presentare loro così bene la figura di Cristo.