Libia, Mons. Martinelli: religiosi costretti da islamisti a lasciare la Cirenaica
A circa due anni dallo scoppio della crisi in Libia che ha portato alla destituzione
di Gheddafi, una bomba è esplosa giovedì scorso contro una stazione di polizia di
Bengasi, nell'Est del Paese, senza provocare vittime. E’ il terzo episodio contro
poliziotti in due settimane. C’è poi la notizia di due comunità religiose che hanno
lasciato la Cirenaica dopo aver subito pressioni dai fondamentalisti. La denuncia,
tramite l'agenzia vaticana Fides, è di mons. Giovanni Innocenzo Martinelli,
vicario apostolico di Tripoli, che parla di “situazione critica” nell'Est della Libia.
Il presule è stato raggiunto telefonicamente dalla collega del programma francese
Hélène Destombes:
R. - La presenza
delle comunità religiose è sempre stata un punto di riferimento, di dialogo, con la
comunità musulmana libica, a partire da Tobruk fino a Bengasi, in particolare in questa
regione. Però, in questi ultimi tempi, ci siamo accorti dell’insorgere del fondamentalismo
che ha condizionato tutti i rapporti: rapporti sociali, rapporti di lavoro, rapporti
anche di amicizia nel mondo arabo musulmano con la Chiesa. In particolare, sorgenti
di fondamentalismo sono state rintracciate nella zona di Derna, Beida e ultimamente
anche a Barca (Barce El Merg). Queste realtà condizionano certamente l’evoluzione
e il rapporto con il mondo musulmano e quindi con la Chiesa. A noi dispiace perché
è stato sempre un rapporto proficuo, molto importante, che ci ha aiutato a crescere
in comunione con il mondo arabo e musulmano. Adesso purtroppo la situazione sta cambiando.
Stiamo a guardare. Vedremo cosa succederà nell’anniversario di questa rivoluzione,
tra pochi giorni. Al vescovo di Bengasi, mons. Sylvester Magro, è stato consigliato
di lasciare la casa dove abita a Bengasi e di ritirarsi in un ospedale per non subire
eventualmente maltrattamenti, ma lui ha chiesto di restare per occuparsi della comunitàcristiana.
Ma
cosa dire della situazione generale della Libia? Fausta Speranza ne ha parlato
con il prof. Luciano Bozzo, docente di relazioni internazionali e studi strategici
all’Università di Firenze:
R. – Si sommano
problemi, crisi e conflitti diversi. La Libia – non è scoperta di oggi – è una costruzione
politica coloniale, un frutto del colonialismo italiano. Tiene assieme territori molto
diversi, come noto: la Tripolitania, la Cirenaica e il Fezzan, nei quali si muovono,
vivono, sono insediate 150 tribù. Naturalmente in questo territorio oltre a quei movimenti
di natura in parte anche laica che hanno portato pure in Libia a quel fenomeno che
è stato definito più in generale “la Primavera araba”, si è innestato su questo fenomeno,
come era da attendersi, un movimento fondamentalista islamico di ispirazione salafita,
qaedista, comunque jihadista. La situazione, poi, è molto confusa perché in realtà
il Paese, dal punto di vista del controllo del territorio, è frazionato: non esiste
un’autorità centrale a Tripoli che possa vantare l’effettivo controllo del territorio.
E quindi si tratta di vedere chi riuscirà tra questi diversi gruppi, movimenti ad
assumere la leadership. Ma credo di poter dire che sarà molto difficile nei prossimi
anni, per non dire nei prossimi decenni, prevedere un ristabilimento della Libia simile
a quello che conoscevamo, proprio perché non mi pare che vi siano un movimento o un
leader in grado di imporre il controllo dell’intero territorio e che, soprattutto,
abbia i mezzi e il sostegno per farlo.
D. – Che dire degli equilibri regionali?
Abbiamo visto quanto è successo in Algeria, legato all’operazione francese in Mali,
quindi anche la connessione tra forze integraliste di diversi Paesi. Che dire a questo
proposito della Libia?
R. – Io credo che la situazione nell’intero scacchiere
regionale sia molto preoccupante. L’episodio in particolare avvenuto in Algeria, cioè
la strage all’impianto petrolifero della Bp, mi sembra che ne sia soltanto l’ennesima
testimonianza. In realtà, quello che sta accadendo in Mali, nel territorio meridionale
dell’Algeria – sebbene in scala più limitata – si inserisce, appunto, in un contesto
caratterizzato dal fatto che noi, in realtà, ci troviamo di fronte al progressivo
estendersi di una fascia di crisi che si allunga dalla Mauritania, o addirittura dal
Sahara occidentale, attraverso il Mali, il Niger e il Ciad fino al Sudan e all’Eritrea.
Questa fascia si allunga dall’Oceano atlantico fino praticamente al Mar Rosso, senza
soluzione di continuità, perché basta aprire una carta geografica per rendersi conto
che molti dei confini tra i Paesi che ho citato non sono altro che linee rette tracciate
sulla sabbia. In questa fascia, appunto, si stanno diffondendo movimenti qaedisti
e jihadisti, che tra l’altro si stanno saldando con preesistenti movimenti di natura
“nazionalista”, movimenti di liberazione nazionale come quello storico laico dei Tuareg.
E’ questo il caso del Mali. Gruppi simili trovano naturalmente molto semplice spostarsi
in un territorio vasto, desertico dove i confini sono molto spesso fittizi e trovano
facile innestarsi su rivendicazioni locali di lunga data, che si collegano poi anche
a movimenti analoghi in Paesi vicini alla fascia che ho citato: la ricordata Algeria
ma anche il Nord della Nigeria, con Boko Haram.