Rebibbia, premiati i presepi dei detenuti. Il cappellano: pochi mezzi per aiutare
la rieducazione
Nella Casa di reclusione di Rebibbia sono stati premiati sabato scorso i presepi più
belli allestiti dai detenuti. Cinque le opere in gara realizzate dalle diverse sezioni
del carcere romano. Ha seguito per noi l’evento, Davide Dionisi:
Una barca realizzata
con gli stuzzicadenti che ospita la Sacra Famiglia, allestita nella Cappella dell’Istituto
di pena romano, segna il punto di eccellenza della mostra dei presepi realizzati dai
detenuti della Casa di reclusione di Rebibbia. Una scelta non casuale che rievoca,
così come si legge nella presentazione degli autori, “la Chiesa in navigazione nei
flutti nell’Anno della Fede”. Anche di fronte all’evidente mancanza di risorse economiche,
è ancora una volta la creatività e le giuste motivazioni che pilotano iniziative come
queste. Ci spiega perché, il cappellano del carcere romano, don Nicola Cavallaro:
R.
– Si può potenziare il tutto anche con quella che è la piccola creatività, cioè facendo
trascorrere in modo diverso la giornata ai detenuti, ad esempio facendo per loro una
catechesi molto semplice, con piccoli dibattiti. E questo fa sì che essi aumentino
la loro conoscenza sia dal punto di vista della fede, sia dal punto di umano.
D.
– Il carcere continua a essere unicamente un luogo di reclusione e di pena e non un’opportunità
di rieducazione e di un possibile reinserimento sociale. Perché?
R. – Perché
mancano le cure che la società civile dovrebbe dare a ciascun detenuto, perché nel
momento in cui un detenuto entra in una struttura carceraria perde quella che è la
sua dignità, dignità che poi non gli viene riconosciuta neanche quando ha finito di
scontare la sua pena. Inoltre, all’interno dell’Istituto stesso, non ci sono quei
mezzi - come ad esempio un lavoro per impiegare il tempo quotidiano - sufficienti
a una sua rieducazione. Sono pochi i mezzi e ciò dipende sia dalla carenza economica,
dalla crisi attuale e forse anche da coloro che sono preposti alla cura dei detenuti
e che invece pensano ad altro.
D. – Come viene percepita una figura come la
sua dal detenuto?
R. -– Io sono cappellano, qui a Rebibbia, da quattro mesi.
Vengo da una realtà parrocchiale, ero viceparroco, quindi anche io mi trovo un po’
spaesato e vedo che le difficoltà sono tante. La mia figura è vista come quella di
un sacerdote, ma anche di un amico, di un conoscente, di una persona che cammina insieme
ai detenuti. Ad esempio, ogni tanto io trascorro “l’ora d’aria” con loro e passeggio
assieme a loro. Si cerca di venire un po’ incontro alle loro necessità.
Nel
carcere di Rebibbia operano anche i volontari. Ascoltiamo la testimonianza di Agnese
Manca, appartenente al Vic–Volontari in carcere:
R. – È il terzo
anno che presento un corso di arabo, perché qui a Rebibbia ci sono molti immigrati,
persone che veramente non hanno mai avuto la fortuna di sedersi a un banco di scuola
nei loro Paesi. Si tratta di persone che vengono soprattutto da Tunisia, Algeria,
Marocco, ma anche da Ghana, Senegal, da Paesi dell’Africa.
D. – Come viene
percepita la sua figura dal detenuto?
R. – Noi volontari ci sentiamo “in famiglia”
con i detenuti. In effetti, quando si entra in carcere si vedono i detenuti, si parla
con loro e si conoscono le loro storie. Quel muro che c’è tra la società civile e
il carcere stesso, crolla sul serio. Con i detenuti quindi abbiamo una certa familiarità.
Io spesso telefono alle loro famiglie che vivono nei Paesi arabi.
D. – Secondo
lei, il carcere in Italia riabilita?
R. – È una domanda difficile a cui rispondere:
si fanno degli sforzi, ma certe volte gli ambienti carcerari in Italia, come tali,
difficilmente servono alla riabilitazione. Sentire un detenuto che dice: “In rapporto
ad altre carceri, qui a Rebibbia siamo in un hotel a cinque stelle” è tutto dire e
noi sappiamo che non è un hotel a cinque stelle. Sappiamo che ci sono celle anche
con otto-dieci detenuti.
D. – Quanto è importante la religione in carcere,
secondo lei?
R. – Io vedo che quando ci sono delle celebrazioni per i cristiani,
ma anche per i musulmani – perché qui c’è una sorta di “piccola moschea”, ovvero una
cella adibita a luogo di preghiera per i musulmani – i detenuti ne ricevono un grande
conforto. E questo credo sia importante, perché vedo la partecipazione alle Messe.
Inoltre, il gruppo di detenuti musulmani, che pratica il digiuno in maniera rigorosa,
è lontano da fanatismi. Loro sanno che io sono cristiana, ma non fa differenza quando
parliamo, anzi. Certe volte ho incontrato in loro una certa curiosità di sapere, di
condividere questo “non fanatismo”. Dire “Dio è uno” ha la sua importanza qui, come
in tutti i luoghi di sofferenza.