I Paesi occidentali tagliano il debito della Birmania
Il governo birmano ha comunicato di aver ottenuto un accordo con i suoi creditori
del Club di Parigi per l'annullamento di metà del suo debito. Si tratta di un ennesimo
segno della fiducia della comunità internazionale al regime militare di Naypyidaw
che ha avviato un'epoca di riforme. L'accordo riduce il debito estero della Birmania
di circa 6 miliardi di dollari. Dei significati economici e politici, Fausta Speranza
ha parlato con il prof. Stefano Caldirola, docente di Storia contemporanea
dell'Asia presso l'Università degli Studi di Bergamo:
R. – Il Club
di Parigi - che raccoglie, in modo informale, le organizzazioni finanziarie di 19
Paesi del mondo cosiddetto “occidentale”, più la Russia - ha deciso di cancellare
il debito birmano per circa sei miliardi di dollari. Una cifra che per il Club di
Parigi non è particolarmente rilevante ma è rilevante per il Myanmar, ex Birmania,
in quanto rappresenta circa il 60% del totale del debito estero del Paese. Questi
Paesi ed il Club di Parigi, quindi, si impegnano a cancellare una parte rilevante
dei loro crediti – crediti che tra l’altro datano a diverse decadi fa – e in cambio,
ovviamente, si preparano ad entrare, con investimenti o con le loro imprese, in un
mercato che è stato a lungo chiuso per via delle sanzioni. Si parla di un Paese che
ha rilevanti risorse in termini di gas, in termini di petrolio, di minerali e legname.
Dall’altro, certamente, ci sono risvolti politici: si vuole incoraggiare ulteriormente
il governo di Naypyidaw ad aprirsi nei confronti del mondo esterno, sulla via della
democrazia.
D. – Fino a pochissimo tempo fa parlavamo del regime della Birmania
come uno dei più chiusi al mondo; adesso parliamo di regime riformista. Ci ricorda
che cosa sia davvero cambiato?
R. – Dal 2010 ad oggi è cambiato quasi tutto,
almeno apparentemente. Improvvisamente, il regime - che era chiuso ed era un vero
e proprio paria a livello internazionale - ha deciso di aprirsi: ha portato avanti
una serie di riforme politiche, ha allentato la censura, ha tenuto delle elezioni,
anche se parziali; ha liberato gran parte dei prigionieri politici… C’è un nuovo corso
riformista che è stato molto rapido.
D. – Ricordiamo che parliamo di Myanmar,
ex Birmania. Oggi, secondo lei, cosa sarebbe più giusto usare come nome?
R.
– Dal punto di vista dell’etimologia, i termini hanno un’origine simile: il termine
Birmania è legato all’utilizzo che se ne faceva in epoca coloniale - cioè, il nome
ufficiale Burma – ed il regime ha deciso, all’inizio degli anni ’90, di cancellare
tutta la toponomastica di origine coloniale, quindi di conseguenza anche il termine
Burma, che in italiano è Birmania. In realtà, questo termine viene ancora utilizzato
a livello ufficiale soprattutto da parte dei Paesi di lingua inglese, a partire dalla
vecchia potenza coloniale, ovvero, la Gran Bretagna; oggi, il termine ufficiale è
Myanmar. Chiaramente, l’utilizzo di uno dei due termini ha un preciso significato
politico: il nome ufficiale è quello che viene utilizzato dalla giunta militare, dal
governo; mentre, il termine Birmania viene utilizzato ancora da una parte dell’opposizione.
Quindi, a seconda del riconoscimento che si vuole dare al governo, piuttosto che all’opposizione,
ci sono termini diversi che vengono utilizzati. L’origine etimologica dei due termini
è comunque molto simile.
D. – Che cosa aspettarsi ancora, in termini di riforme.
Che cosa ancora non va nel Paese?
R. – Ci sono ancora molti prigionieri politici
e le elezioni sono state ancora elezioni parziali, vinte per altro dall’opposizione
guidata dal premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi. Dobbiamo aspettarci un’accelerazione
nel processo delle riforme, ma bisogna fare molta attenzione, perché la dialettica
in questo momento – più che tra governo ed opposizione – appare interna ai militari
stessi: c’è una parte di militari che sicuramente appoggia queste riforme, un’altra
parte più conservatrice che potrebbe cercare un “colpo di coda”. Per cui, da un lato
bisogna fare attenzione ad incoraggiare le riforme, dall’altro evitare che questi
scossoni possano portare ad un conflitto e ad un’eventuale reazione da parte dei militari
più conservatori.