2013-01-28 14:27:08

I Paesi occidentali tagliano il debito della Birmania


Il governo birmano ha comunicato di aver ottenuto un accordo con i suoi creditori del Club di Parigi per l'annullamento di metà del suo debito. Si tratta di un ennesimo segno della fiducia della comunità internazionale al regime militare di Naypyidaw che ha avviato un'epoca di riforme. L'accordo riduce il debito estero della Birmania di circa 6 miliardi di dollari. Dei significati economici e politici, Fausta Speranza ha parlato con il prof. Stefano Caldirola, docente di Storia contemporanea dell'Asia presso l'Università degli Studi di Bergamo:RealAudioMP3

R. – Il Club di Parigi - che raccoglie, in modo informale, le organizzazioni finanziarie di 19 Paesi del mondo cosiddetto “occidentale”, più la Russia - ha deciso di cancellare il debito birmano per circa sei miliardi di dollari. Una cifra che per il Club di Parigi non è particolarmente rilevante ma è rilevante per il Myanmar, ex Birmania, in quanto rappresenta circa il 60% del totale del debito estero del Paese. Questi Paesi ed il Club di Parigi, quindi, si impegnano a cancellare una parte rilevante dei loro crediti – crediti che tra l’altro datano a diverse decadi fa – e in cambio, ovviamente, si preparano ad entrare, con investimenti o con le loro imprese, in un mercato che è stato a lungo chiuso per via delle sanzioni. Si parla di un Paese che ha rilevanti risorse in termini di gas, in termini di petrolio, di minerali e legname. Dall’altro, certamente, ci sono risvolti politici: si vuole incoraggiare ulteriormente il governo di Naypyidaw ad aprirsi nei confronti del mondo esterno, sulla via della democrazia.

D. – Fino a pochissimo tempo fa parlavamo del regime della Birmania come uno dei più chiusi al mondo; adesso parliamo di regime riformista. Ci ricorda che cosa sia davvero cambiato?

R. – Dal 2010 ad oggi è cambiato quasi tutto, almeno apparentemente. Improvvisamente, il regime - che era chiuso ed era un vero e proprio paria a livello internazionale - ha deciso di aprirsi: ha portato avanti una serie di riforme politiche, ha allentato la censura, ha tenuto delle elezioni, anche se parziali; ha liberato gran parte dei prigionieri politici… C’è un nuovo corso riformista che è stato molto rapido.

D. – Ricordiamo che parliamo di Myanmar, ex Birmania. Oggi, secondo lei, cosa sarebbe più giusto usare come nome?

R. – Dal punto di vista dell’etimologia, i termini hanno un’origine simile: il termine Birmania è legato all’utilizzo che se ne faceva in epoca coloniale - cioè, il nome ufficiale Burma – ed il regime ha deciso, all’inizio degli anni ’90, di cancellare tutta la toponomastica di origine coloniale, quindi di conseguenza anche il termine Burma, che in italiano è Birmania. In realtà, questo termine viene ancora utilizzato a livello ufficiale soprattutto da parte dei Paesi di lingua inglese, a partire dalla vecchia potenza coloniale, ovvero, la Gran Bretagna; oggi, il termine ufficiale è Myanmar. Chiaramente, l’utilizzo di uno dei due termini ha un preciso significato politico: il nome ufficiale è quello che viene utilizzato dalla giunta militare, dal governo; mentre, il termine Birmania viene utilizzato ancora da una parte dell’opposizione. Quindi, a seconda del riconoscimento che si vuole dare al governo, piuttosto che all’opposizione, ci sono termini diversi che vengono utilizzati. L’origine etimologica dei due termini è comunque molto simile.

D. – Che cosa aspettarsi ancora, in termini di riforme. Che cosa ancora non va nel Paese?

R. – Ci sono ancora molti prigionieri politici e le elezioni sono state ancora elezioni parziali, vinte per altro dall’opposizione guidata dal premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi. Dobbiamo aspettarci un’accelerazione nel processo delle riforme, ma bisogna fare molta attenzione, perché la dialettica in questo momento – più che tra governo ed opposizione – appare interna ai militari stessi: c’è una parte di militari che sicuramente appoggia queste riforme, un’altra parte più conservatrice che potrebbe cercare un “colpo di coda”. Per cui, da un lato bisogna fare attenzione ad incoraggiare le riforme, dall’altro evitare che questi scossoni possano portare ad un conflitto e ad un’eventuale reazione da parte dei militari più conservatori.







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