Card. Bagnasco: "niente può essere equiparato alla famiglia. Un dovere partecipare
al voto"
Si sono aperti questo pomeriggio i lavori del Consiglio permanente della Conferenza
episcopale italiana (Cei), che si concluderanno giovedì 31 gennaio. Di seguito pubblichiamo
il testo integrale della prolusione del presidente della Cei card. Angelo Bagnasco:
"Venerati
e Cari Confratelli,ci incontriamo all’inizio di un nuovo anno, che immaginiamo cruciale,
riconoscendolo fin d’ora quale tempo di Dio, tempo speciale in cui Egli ci parla e
ci conferma la sua volontà di salvezza verso tutti gli uomini. Il Vescovo, infatti,
«dev’essere preso dall’inquietudine di Dio per gli uomini. Deve, per così dire, pensare
e agire insieme con Dio. […] L’inquietudine dell’uomo verso Dio e, a partire da essa,
l’inquietudine di Dio verso l’uomo devono non dar pace al Vescovo» (Benedetto XVI,
Omelia per la Solennità dell’Epifania, 6 gennaio 2013). «Presi dentro» da questa
inquietudine, siamo già in speciale pellegrinaggio ad limina apostolorum, toccando
infatti all’episcopato italiano compiere il gesto canonicamente prescritto, e compierlo
– per un dono della Provvidenza di Dio – proprio nell’Anno della Fede. Sappiamo che
si tratta di un incontro di carattere unico, di un distinto evento di Chiesa, che
tocca in modo singolare ciascuno di noi, perché non abbiamo a trovarci a nostra volta
nel rischio di «correre o aver corso invano» (Gal 2,2). Fin d’ora, ringraziamo
Benedetto XVI per l’accoglienza che ci accorda, e lo ringraziamo in particolare –
come Vescovi d’Italia – per aver voluto di recente dichiarare venerabile il Papa Paolo
VI: il riconoscimento delle sue virtù eroiche esemplifica in modo eminente che l’autorità
episcopale o si sostanzia della testimonianza evangelica o difficilmente parla al
mondo d’oggi.
Siamo ancora avvolti dall’ala del Natale, mistero di sconfinata
delicatezza e insieme di vigorosa scossa: «Abbiamo veramente posto per Dio, quando
Egli cerca di entrare in noi? Abbiamo tempo e spazio per Lui? […] La questione che
riguarda Lui non sembra mai urgente. Il nostro tempo è già completamente riempito.
Ma le cose vanno ancora più in profondità. Dio ha veramente un posto nel nostro pensiero?»
(Benedetto VI, Omelia della Messa di Mezzanotte, 24 dicembre 2012). Non è una
domanda che ci poniamo di passaggio, essa ha ruolo centrale e definitivo nella nostra
esistenza: quanto il recente Natale ci ha spinto a purificare il nostro sguardo, a
riconsiderare le nostre priorità, a scuotere stanchezze, ad affinare i nostri pensieri
sulla verità di Cristo? Nell’aula del Sinodo – esperienza di Pentecoste – è risuonata
dall’intero Orbe che anche nell’irrinunciabile compito di annunciare il Vangelo, prima
di ogni altra considerazione, è Lui che dobbiamo guardare sempre di nuovo; Lui, la
lieta notizia e l’annunciatore primo, la verità e il maestro, il seme e il seminatore.
Fa parte «del diventare cristiani l’uscire dall’ambito di ciò che tutti pensano e
vogliono, dai criteri dominanti, per entrare nella luce della verità del nostro essere
e, con questa luce, raggiungere la vita giusta» (J. Ratzinger-Benedetto XVI, L’infanzia
di Gesù, Rizzoli-Editrice Vaticana 2012, pag. 80). In Gesù vi è, infatti, il segreto
di ogni metodo e di ogni vera efficacia: Lui, Gesù, è la Luce vera che viene nel mondo,
il Figlio del Dio vivente, il Rivelatore del Dio invisibile, il Prototipo dell’umanità,
il Centro della storia e del mondo, la Meta del nostro cammino, il compagno di strada,
l’Amico indefettibile, il Sostegno sorprendente, il Conforto risanatore, la Speranza
affidabile, Egli è la nostra ineffabile gioia! Sì, benché nessuno possa negare che
siamo dentro a un travaglio storico delicatissimo e intricato, noi sappiamo di poterci
affidare alla gioia. Una gioia che reinterpreta e ricolloca le angosce, gioia che
spoglia le apparenze e aiuta a riconoscere la vera consistenza dei virgulti positivi
che il nostro tempo genera. Gioia che non è solo un sentimento, una fragile emozione:
è una Persona. Lui è tutta la nostra gioia, nel senso che le ricapitola tutte, condensandole
in Sé. No, non finiremmo mai di parlare di Gesù. E se anche stasera o domani,
nell’opinione pubblica echeggeranno solo alcune delle nostre parole, e non precisamente
queste – forse perché ritenute ovvie, di maniera, persino scontate –, si sappia però
che è questo, è Gesù Cristo che noi vogliamo porgere, il Suo nome far risuonare. Non
è vero che a noi interessa far politica, noi vogliamo dire Gesù. Uomini e donne che
ci ascoltate, qualunque sia la vostra interiore convinzione, noi Pastori abbiamo da
dirvi una parola antica che si affida alla nostra povera voce, ma che fa eco a quella
poderosa dei secoli: «l’Infinito fatto bambino, è entrato nella nostra umanità» (Benedetto
XVI, Messaggio Urbi et Orbi, 25 dicembre 2012), cioè ha fatto qualcosa di non
immaginabile, ha compiuto l’impossibile, e comunque qualcosa che va al di là dell’umana
comprensione. Eppure, questa Onnipotenza d’amore ha scelto di non imporsi alla nostra
libertà, ma solo di offrirsi. Egli non vuole «entrare nel mio cuore se non apro io
la porta» (ib). Sì, Porta fidei, è ciò che cercheremo di sperimentare
in quest’anno di grazia, sperimentare nella gioia (cfr Paolo VI, Gaudete in Domino,
1975)! C’è una diffusa mestizia, che si tenta di attenuare con il chiasso e il rumore,
ma Lui – inesorabile nel suo amore – sta alla porta e bussa (cfr Ap 3,20),
e ognuno deve decidere se aprirgli, deve soppesare la convenienza anche umana del
credere in Lui: «Potremmo rimanere spaventati, davanti a questa nostra onnipotenza
alla rovescia. Questo potere dell’uomo di chiudersi a Dio» (Messaggio cit.).
Abituati a trattare con un altro genere di prodigi – della scienza e della tecnica
– o con un altro tipo di poteri – politici o giudiziari – potremmo forse non cogliere
subito l’assoluta novità di questo impareggiabile Prodigio, di questa ineguagliabile
Onnipotenza. L’«ignoranza pratica» circa la fede (Benedetto XVI, Discorso ai Vescovi
francesi, 30 novembre 2012) troppo spesso ci ottunde e devìa. Attenzione, però;
chinandosi, Dio ci provoca, ci sfida amorevolmente a cogliere il vuoto diffuso attorno
a noi e dentro di noi, «ma è proprio a partire da questo deserto, da questo vuoto
che possiamo nuovamente scoprire la gioia di credere, la sua importanza vitale per
noi uomini e donne» (Benedetto XVI, Omelia per l’Apertura dell’Anno della Fede,
11 ottobre 2012). Un germoglio di eternità possiamo impiantare nell’umana gestazione
della vita, scenario impensabile, soprassalto di orgoglio: è un Miracolo quello che
abbiamo tenuto tra le mani a Natale, miracolo che ora dobbiamo vivere perché fiorisca
il deserto.
I fronti di crisi che più ci sgomentano,
all’inizio di questo anno che ancora una volta il Papa ha voluto inaugurare nel segno
della Pace, sono le situazioni di persecuzione in cui si trovano i cristiani, situazioni
che in buona parte coincidono con i conflitti aperti in diverse nazioni, ma in parte
si sviluppano anche là dove apparentemente non dovrebbero esserci motivi di tensione.
Oltre ai luoghi ormai noti, emergono in Asia nazionalismi razziali che suscitano periodicamente
furori intolleranti sotto gli occhi distratti dell’Occidente, che proclama sì i diritti
umani ma poi sembra volerli applicare ed esigere con pesi e misure diverse. Bisogna
aggiungere le frontiere incresciose dell’Africa: Nigeria, Kenya, Repubblica Democratica
del Congo, Mali, in cui le ragioni degli attacchi si mescolano e i motivi pubblici
delle violenze sembrano voler identificare il cristianesimo con il mondo occidentale.
Eppure il Vangelo, ovunque si incultura, si fa costantemente accompagnare da esperienze
di soccorso alle popolazioni, spesso le uniche riscontrabili in loco. Poi ci sono
le migrazioni etniche basate sempre sul fattore religioso, per cui i cittadini che
professano il cristianesimo – religione che magari è storicamente la più radicata
in quell’ambito geografico – debbono andarsene lasciando tutto quello di cui era fatta
la loro esistenza, e ciò per non abiurare la fede. Dietro i sommovimenti avvenuti
di recente nel Nord Africa, emergono inquietanti tentativi di ulteriore discriminazione,
e in troppi Paesi ai cristiani non è consentito alcun segno di appartenenza religiosa,
salvo mimetizzarsi, nascondersi, dislocarsi. Gli esperti parlano complessivamente
di oltre centomila cristiani delle varie confessioni uccisi nel 2012. Una cifra spaventosa,
che non può lasciar indifferente nessuno – singoli e istituzioni – tanto meno in nome
di interessi economici e politici. Quanti soffrono e muoiono per Cristo lo fanno anche
per noi, e noi li sentiamo nostri fratelli nonostante qualsiasi distanza. Nell’economia
misteriosa attraverso cui si intesse concretamente il regno di Dio sulla terra, è
la comunione con queste situazioni di martirio che dà verità e vigore al nostro lavoro
pastorale, impegnato oggi nella rievangelizzazione delle terre che hanno da tempo
conosciuto il Vangelo. Se le nostre parrocchie tenessero viva, anzi alimentassero,
una sistematica memoria dei fratelli che nel mondo sono perseguitati, anche la locale
vitalità della fede ne sarebbe rimotivata. Chi infatti, se non costoro, possono darci
ragioni e convinzioni di slancio autentico?
Nel contempo, non abbandoniamo
mai la preoccupazione per il problema della fame nel mondo e l’impegno per gli aiuti
da prestare alle varie regioni. La crisi alimentare, a giudizio del Papa, è «ben più
grave di quella finanziaria» (Messaggio per la 46a Giornata
della pace, n. 5). Ci sono le istituzioni preposte, ma c’è innanzitutto la solidarietà
che mai deve venir meno, a livello pratico e anche a livello culturale. Benedetto
XVI ha di recente voluto valorizzare la formula cooperativistica quale strumento efficace
per combattere strutturalmente la fame. Dare impulso al lavoro autoctono e specialmente
agricolo è «un modo per consentire agli agricoltori e alle popolazioni rurali di intervenire
nei momenti decisionali e insieme uno strumento efficace per realizzare quello sviluppo
integrale di cui la persona è fondamento e fine» (Messaggio per la Giornata dell’Alimentazione,
16 ottobre 2012). Una circostanza questa che ci induce ad esprimere, per assonanza,
vero stupore per una specie di improvvisa incomprensione che ha colpito il settore
dell’economia sociale: proprio da noi, che storicamente siamo stati tra i primi a
sperimentarla e abbiamo così tante ragioni concrete per stimarla. Nutrire più rispetto
per l’economia sociale e civile, e per le sue esperienze più tipiche in quello che
è chiamato il Terzo settore, è condizione per continuare a disporre del cespite di
un’economia prossima a tutti e certamente propizia per la collettività.
Ma c’è un’altra emergenza che il Natale, con il suo realismo crudo e implacabile,
ha messo sotto gli occhi di chi vuol vedere: la condizione di indigenza che si va
obiettivamente allargando, e sta intaccando segmenti di società in cui prima era sostanzialmente
marginale. I dati vengono monitorati da varie agenzie, le quali oggi convergono nell’assegnare
uno spessore crescente al fenomeno. A nessuno deve far comodo esagerare in termini
catastrofici, ma occorre però che il Paese non esorcizzi la realtà. Gli schemi sociali
classici sono saltati e non si ripristineranno automaticamente. Scongiurato il baratro,
è il momento decisivo e irrimandabile del rilancio. La ripresa, quando ci sarà – e
segnali di speranza, grazie a Dio, cominciano ad affacciarsi – non sarà tale purtroppo
da porre rimedio da sola alle emergenze nel frattempo scoperte. È il sistema che va
posto in discussione – il meccanismo consumi-spesa-debito pubblico (cfr. Messaggio
per la 46a Giornata Mondiale della Pace, n. 5) – abbandonando
la logica delle “illusioni” che ha fatalmente mostrato la propria assoluta inadeguatezza
morale e pratica. C’è da rivoluzionare il modello grazie al supporto di un pensiero
nuovo, fermamente convinti che il lavoro è definitorio dell’umano: esso, infatti,
è la nobile partecipazione dell’uomo all’opera del Creatore, consente il dignitoso
sostentamento, contribuisce alla costruzione della società, esprime le potenzialità
di ciascuno nell’armonia generale, genera futuro per tutti. Giustamente da più parti
si evidenzia la nuova rilevanza che ha acquisito la questione sociale in Italia e
in Europa, per gli esiti di emarginazione che sta creando. Noi, per la prossimità
che ci è data con la vita reale della gente, non possiamo che confermarlo con crescente
allarme e soprattutto con cuore afflitto: «La giustizia chiede di superare lo squilibrio
tra chi ha il superfluo e chi manca del necessario» (Benedetto XVI, Discorso all’Angelus,
16 dicembre 2012). E tra quanto è più necessario è proprio il lavoro, bene «prioritario,
anche nei periodi di recessione economica» (Benedetto XVI, Discorso a Justitia
et Pax, 3 dicembre 2012). La disoccupazione giovanile è, per ora, una sorta di
epidemia che non trova argini, mentre ci si chiede se le iniziative legislative che
si sono finora succedute abbiano determinato sollievo o aggravamento. Bisogna che
le competenze migliori cooperino in uno sforzo solidale e così ogni istituzione, affinché
si possa vedere e toccare il rilancio dell’occupazione e dell’economia; rilancio per
il quale la gente ha accettato sacrifici anche pesanti. Tanto patrimonio di responsabilità
e rigore, di dignità e adattamento, non può andare sprecato per colpa di alcuno –
sarebbe un insulto – e invece si deve cominciare a vederne i frutti. Non può essere
il capitale umano quello che per primo viene messo in discussione quando un’industria
è in sofferenza; se è approdata ad alti livelli è grazie al lavoro e all’apporto delle
diverse maestranze, ed è ingiusto che proprio queste, per prime, vengano messe alla
porta. Vorremmo incoraggiare e sostenere quanti, nei diversi ruoli, vanno per il mondo
ad assicurare credibilità e aprire nuovi sportelli di mercato. Vediamo lavoratori
che si stringono di più gli uni agli altri, che cercano di appoggiarsi reciprocamente
in modo generoso e intelligente. Vediamo famiglie che solidarizzano, condividendo
economie e risorse, scambiando tempo e servizi. Vediamo giovani – non sono per noi
i nuovi invisibili – non disposti ad arrendersi. A loro siamo particolarmente vicini
in ogni momento di disillusione, ma anche in ogni tentativo che conducono: in ogni
curriculum che inviano, ad ogni porta a cui bussano, siamo con loro per appoggiare
la loro tenacia. Nel frattempo tuttavia bisogna che il sistema sappia migliorare le
prestazioni e innovare nel senso della sostenibilità, della ricerca, della sicurezza.
Bisogna affinare le eccellenze, sveltire i processi, alleggerire la macchina burocratica,
valorizzare continuamente la creatività e l’inventiva. E bisogna abbandonare la logica
dell’essere contro “a prescindere”, atteggiamento che appare come un’offesa all’intelligenza
e alla serietà delle questioni. La logica del sospetto ideologico genera divisioni
artificiose, contraccolpi indesiderati, ritorsioni a loro volta superficiali e dolorose.
Servitori di Gesù Cristo, noi Vescovi vorremmo annunciare oggi, con particolare persuasione,
il vangelo del lavoro. Gesù ha investito almeno due decenni della sua vita nel laboratorio
di Giuseppe, ha conosciuto la fatica del lavoro, l’ha praticata senza sconti o fughe.
Anche in quel lungo tratto della sua esistenza, Egli ubbidiva al Padre e aveva un
programma da indicare a noi.
Una parola, in questo contesto del welfare,
vorremmo dirla a proposito della sanità: da una parte per condannare gli imbrogli,
i maneggi, le astuzie che si consumano in un settore ad altissima vocazione altruistica,
dall’altra per prendere le distanze da logiche irrazionalmente pretenziose e talora
esclusivamente campanilistiche. Dobbiamo allargare lo sguardo. Chiediamo tuttavia
che la politica dei tagli sia compensata e guidata dal criterio che al centro vi sia
sempre la persona del paziente: quale che sia la sua età e condizione, va prioritariamente
salvaguardata. Per questo ci sono specialità, competenze e ricerche che vanno strategicamente
preservate. Non ci devono essere privilegi, ma neppure visioni ristrette o punitive. Un’altra
parola, molto convinta, intendiamo riservarla alle popolazioni del Meridione, non
da oggi vessate dalla malavita, i cui tentacoli ormai si allargano all’intero Paese.
Dobbiamo vigilare, resistere, incoraggiare, denunciare, bonificare e recuperare: tutto
in una chiave di educazione e promozione umana che è inseparabile dall’evangelizzazione.
Queste problematiche sociali, in certa misura antiche ma anche inedite,
hanno oggi una spigolosità che non lascia certo indifferente la nostra Chiesa, la
quale per la sua parte intende rispondervi rinnovando profondamente se stessa e la
propria presenza sul territorio, anzitutto grazie ad un profilo più missionario delle
parrocchie: «Il messaggio cristiano viene seminato e si radica efficacemente là dove
è vissuto in modo autentico ed eloquente da una comunità» (Benedetto XVI, Messaggio
all’Assemblea del CCEE, 8 ottobre 2012). La riduzione del clero non può coincidere
con l’affievolirsi di tali presidi pastorali, anzi è semmai il tenerli ancor più aperti,
attenti e prossimi alle persone che può configurare una fondamentale risposta alla
sfida della nuova evangelizzazione. È noto quello che viene messo in campo dalle nostre
Diocesi per rispondere all’appello dei bisognosi. In tal senso, la sensibilità e la
reperibilità, riscattate da pragmatismi farraginosi e connotate da amicizia e condivisione,
diventano caratteristiche irrinunciabili della carità evangelica. Ma oltre al territorio,
quest’opera va meglio coniugata con la pastorale degli ambienti, in vista di un accreditamento
reciproco e un’integrazione più consapevole ed esplicita con la presenza dei movimenti
e delle aggregazioni, come con proposte che per natura loro sono sovra-parrocchiali.
Si pensi alle GMG o ai pellegrinaggi. Una pastorale integrata, dunque, che ponga il
proprio baricentro nell’Eucarestia, e da lì si moduli senza isolazionismi, mirando
a ciascun soggetto e ciascun ambito, finanche ai crocicchi delle strade. Ma mentre
attiviamo una migliore creatività (cfr. Benedetto XVI, Omelia per la conclusione
del Sinodo, 28 ottobre 2012), dobbiamo sempre ricordare che non è il nostro fare
più o meno esasperato che compie il miracolo della fede, bensì il consentire attraverso
di noi il fare del Signore, il non ostacolarlo e anzi favorire la sua attrattività.
Lui fa nascere figli di Abramo dalle pietre (cfr Lc 3,8), Lui dobbiamo collocare
sempre più al cuore della nostra attività e delle nostre relazioni, Lui riconoscere
come il senso vero di ogni iniziativa catechetica e di ogni sforzo per rinnovarla,
Lui soprattutto la Presenza palpitante di una liturgia meno pragmatica e sciattamente
didascalica, perché meglio capace di far incontrare il Signore, non noi. È nella cura
ai sacramenti, a partire da quelli dell’iniziazione cristiana, che parrocchie e diocesi
mettono in gioco il permanere della loro cattolicità. Non abbiamo un prodotto da imporre
– come ci avvertiva il Messaggio finale del Sinodo – ma una Persona, una presenza,
un’amicizia che cambia la vita. In questo senso è la testimonianza e sono i testimoni
coloro che concretamente fanno la nuova evangelizzazione. Qui si insinua la dinamica
di una nuova devotio di cui pure s’è parlato, che deve spingerci a ritrovare,
nella post-modernità, quei modi e quelle occasioni atte a parlare al cuore. Cercando
di arrestare ogni processo di involontaria auto-secolarizzazione, le nostre comunità
devono rispondere alla nostalgia di Dio, senza porre in alternativa ciò che è essenziale
con il clima necessario alla pietà, al senso di stupore, all’interiorizzazione. Se
si è impoverito il lessico della fede ed è stato eroso il linguaggio che teneva viva
la relazione con Dio, bisogna far sì che il tempo della nuova evangelizzazione coincida
con la riscoperta dell’identità cristiana e della sequela personale del Signore. C’è
una tiepidezza che discredita il cristianesimo, osservava il Papa: «La fede deve divenire
in noi fiamma dell’amore […] la verità diventi in me carità e la carità accenda come
fuoco anche l’altro. Solo in questo accendere l’altro attraverso la nostra carità,
cresce realmente l’evangelizzazione, la presenza del Vangelo, che non è più solo parola,
ma realtà vissuta» (Meditazione alla 1a Congregazione
generale del Sinodo, 8 ottobre 2012).
Sotto il peso
della congiuntura, il popolo italiano si è mostrato ancora una volta solido: nella
capacità di dedizione e di sacrificio ha rivelato forza di tenuta e di speranza. Ma
nessuno s’illuda o cerchi spiegazioni ideologiche e parziali: se ciò è accaduto, prima
che ai risparmi, alle autoriduzioni, alla revisione di stili di vita, ciò è dovuto
al naturale e insostituibile moltiplicatore di ogni più piccola risorsa: la famiglia.
È il suo patrimonio di amore, di sostegno e di legami virtuosi, che permette ad ognuno
di mantenere quell’invisibile e incomparabile capitale di autostima e fiducia che
nessuna ricchezza materiale può comprare, e senza del quale le difficoltà diventano
massi schiaccianti. Neppure possiamo dimenticare che a livello pubblico hanno rappresentazione
la volatilità degli indicatori economici, la gracilità della sicurezza economico-sociale,
l’improvvisa friabilità dei nostri argini di garanzia, l’imperiosità delle disposizioni
europee. È comprensibile dunque un certo senso di smarrimento. Azioni importanti nell’ultimo
periodo sono state fatte per recuperare affidabilità e autorevolezza, a prezzo anche
di pesanti sacrifici non sempre proporzionatamente distribuiti. Il Paese ha tenuto
duro, avvertendo intuitivamente che stava facendo quello che bisognava fare. Resta
ora da saldare in modo anche visibile la disponibilità della gente con il costume
pubblico e politico. Non c’è un rigore istituzionale degno di questo nome se non ci
sono formazioni politiche che lo assumono su di sé, lo interpretano con scrupolo,
ciascuna con le proprie sensibilità, ma alla fine su di esso sostanzialmente convergono.
Si respira uno sbilanciamento tra il desiderio popolare di uscire dal tunnel e ciò
che viene messo in campo perché l’impresa riesca grazie all’iniziativa dei pubblici
poteri. Di qui la percezione di un Paese perennemente incompiuto, che costa molto
a se stesso ma non riesce ad ottenere i risultati che merita. Sistema non riformabile?,
ci si chiede. Dipende dalla capacità della classe politica complessivamente intesa
di sfidare i propri vizi storici, mettendo con ciò in riga anche i comportamenti popolari
che resistono al cambiamento, come il costume dell’evasione fiscale o quello delle
“scorciatoie”. Ma finché non si dimostrerà vincente la logica del merito, dell’obiettività,
del non-familismo, sarà difficile confidare. Finché la lotta all’evasione non produrrà
risultati in cifre consistenti, e queste entrate non serviranno per abbattere la tassazione
generale, è difficile dar credito alle promesse. Il precipitare della legislatura
verso una prematura conclusione sembra aver risvegliato, nel panorama politico, una
agilità e prontezza sorprendenti. C’è un professionismo esibito nelle fasi elettorali
che palesemente contrasta con la flemma e la sciatteria dimostrate talvolta in altri
frangenti, come se si volesse stare a guardare lo svolgersi degli eventi, pronti ad
appropriarsi dei meriti ma non a condividere i pesi, pronti a cogliere l’occasione
opportuna. Opportuna per chi? Forse per il Paese? «La Chiesa non può e non deve prendere
nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile»:
queste parole normative di Benedetto XVI, espresse nella sua prima enciclica Deus
caritas est, al n. 28, sono il binario a cui strettamente ci atteniamo. Ma se
la Chiesa non è chiamata a caricare immediatamente su di sé il compito politico, «non
può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia» (ib).
Per questo, a quanti sono in campo osa oggi richiedere parole chiare circa le proprie
personali intenzioni, e alle formazioni politiche l’impegno su programmi espliciti,
non infarciti di ambiguità lessicali e tattiche. Il Paese sano è stanco di populismi
e reticenze di qualunque provenienza e comunque vestiti. Le riforme domani saranno
realizzate solo se oggi non si fanno promesse incaute e contraddittorie. Gli italiani,
a quel che comprendiamo, non chiedono l’impossibile, esigono piuttosto che nessuno
dei sacrifici compiuti vada deviato o perduto. E che a partire da questi sacrifici
si allestisca l’intelaiatura di una ripresa concreta, diffusa, equa. Ma un simile
obiettivo, insieme morale e politico, è concretamente sperabile se non manca ora la
capacità di autocritica, l’abbandono di ogni automatico addebito ad altri, la determinazione
di non raggirare domani gli impegni assunti con l’elettorato oggi. La gente vuole
che la politica cessi di essere una via indecorosa per l’arricchimento personale.
Per questo s’impone un potere disciplinare affidabile e una regolazione rigorosa affinché
il malcostume della corruzione sia sventato, tenendo conto però che a poco servono
le necessarie leggi se le coscienze continuano a respirare una cultura che esalta
il successo e la ricchezza facile, anziché l’onore del dovere compiuto.
Il prossimo vaglio elettorale ci renderà più o meno poveri? Ecco
un modo, a nostro avviso non banale, per affrontare le scadenze all’orizzonte. Va
da sé che qui stiamo parlando di indigenza o di benessere secondo il prevalente profilo
antropologico. Se è sacrosanto il ciclico appello al popolo, affinché in coscienza
e responsabilità questi decida sulla strada da percorrere e sulla classe dirigente
a cui per un tratto affidarsi, a ciò corrisponde il diritto-dovere di ogni cittadino
alla convinta partecipazione alla vita civile e politica del Paese. Per questo merita
superare allergie e insoddisfazioni, anche profonde: la diserzione dalle urne è un
segnale di cortissimo respiro. Non bisogna cedere alla delusione, tanto meno alla
ritorsione: non sarebbe saggio e, soprattutto, sarebbe dannoso per la democrazia.
Partecipare è dovere irrevocabile, specie se si pretende di inserire questa prossima
scelta in un quadro più maturo che coinvolga nei debiti modi l’intera vita civile.
Tornano qui provvidenziali le elaborazioni sulla società che a più riprese sono state
condotte dalle nostre Settimane Sociali: guardare con sufficienza, o peggio ironizzare
sull’afasia dei cattolici e dei Pastori, è quanto meno ingiusto come è stato anche
recentemente riconosciuto. La dottrina sociale cristiana ha una sua precipua originalità
rispetto al collettivismo sedicente progressista e al liberismo falsamente egualitario.
È certamente riconosciuto dalla coscienza in generale l’esigenza di esprimere
il proprio voto liberamente, cioè svincolato da suggestioni e da pressioni spesso
veicolate da minoranze che hanno l’abilità di non apparire tali. La biopolitica è
oramai una frontiera immancabile di qualsiasi programma. Francia, Spagna, Inghilterra,
Stati Uniti…, per limitarci a questi soli Paesi, ci dicono che non si può far finta
di accantonare i problemi quando sono semplicemente nodali nelle società post-moderne.
Parlare di vita, salute, malattia, stati cosiddetti vegetativi, dolore, previsione
infausta, medicina palliativa, invasività delle diagnosi, disabilità, rapporto medico-ammalato,
ma anche di medicina e bilancio dello Stato, obiezione di coscienza, politica dei
trapianti… significa affrontare temi cruciali che tali saranno sempre di più. Insieme
a quello scandaloso – per le evidenze che vorrebbe ignorare – dell’aborto, della maternità
surrogata, dell’eutanasia attiva o passiva. Andando sul concreto, quanti aborti e
quanti tentazioni eutanasiche si verificano a motivo del primato economicista? Non
ha senso nascondere gli argomenti, riconoscendo invece cittadinanza elettorale solo
all’economia, in quanto fenomeno che obiettivamente brucia. Si parla ovunque di biopolitica
e di biodiritto; perché non concepire anche l’economia come bioeconomia? Linee di
compromesso, o peggio di baratto tra economia ed etica della vita, a scapito della
seconda, sarebbero gravi. Senza il primato antropologico non solo la finanza e l’economia
sarebbero oppressive perché ridurrebbero la persona in termini di costi e ricavi,
ma anche lo stato sociale nascerebbe su basi anguste e riduttive. Né ci si può
illudere di neutralizzare in partenza il dibattito, acquisendo all’interno delle varie
formazioni orientamenti così diversi da annullare potenzialmente le posizioni, o prevedere
al massimo il ricorso pur apprezzabile all’obiezione di coscienza. Viene qui spontanea
una analogia con la famiglia: come questa ha un volto, un’identità fatta dal suo modo
di ragionare, di amare e di agire, così è della società e dello Stato se vogliono
essere una comunità, e non solo un agglomerato di interessi o istanze particolari.
In questa seconda ipotesi, lo Stato potrà solo cercare di “tenere a bada” gli appetiti
contrastanti dei singoli soggetti o parti, allergici ad un progetto di bene comune.
Il suo massimo merito sarebbe in questo caso di bilanciare non di costruire. Ma la
famiglia – riferimento principale dell’analogia – non è questo! La famiglia è una
scelta d’amore che – in un progetto comune – diventa patto tra un uomo e una donna
nel matrimonio. Similmente, anche la società deve avere alla base un progetto di
bene comune, altrimenti cadrà fatalmente in balia di pressioni o interessi contrastanti,
dove sarà ascoltato ed esaudito chi fa la voce più forte e insistente. Ora, alla radice
del bene comune troviamo le realtà primarie della vita, della famiglia e della libertà,
che si intrecciano e si richiamano universalmente perché sono valori fondativi e quindi
irrinunciabili dell’umano. Si potrebbe dire che l’inviolabilità della vita è il principio,
la famiglia ne è il grembo sorgivo, la libertà la condizione prima di sviluppo. Tutto
il resto viene di conseguenza. Quando la Chiesa si interessa dell’inizio e della fine
della vita, lo fa anche per salvaguardare il “durante”, perché ciò che le sta a cuore
è tutto l’uomo, la cui dignità non è a corrente alternata. Sviluppando la precedente
metafora, nella famiglia nasce la vita, viene accudita con amore e dedizione, fedeltà
e gioia, tanto più quanto essa si presenta fragile e indifesa. La piccola vita – come
la vita malata o anziana – è sentita parte viva e cara del corpo familiare poiché
ognuno è importante, e sta a cuore agli altri per quello che è, non per ciò che fa
o produce. Così deve essere nel corpo sociale e nello Stato. Lasciar andare alla deriva
la vita fragile, che non ha neppure la voce o il volto da opporre per affermare se
stessa, rivela un’autocomprensione efficientista e arrogante dello Stato, una sua
inquietante carta d’identità, pur se il tutto è spesso motivato con ragioni alte.
È qui in questione non la sofferenza e il dramma di persone concrete, ma il porsi
– e prima ancora il concepirsi – di uno Stato verso i suoi membri. La fotografia realista
di una società è determinata anzitutto dal suo rapportarsi virtuoso non verso i soggetti
efficienti, produttivi e gagliardi, ma verso i più bisognosi e indifesi. Sta qui la
sua prima e incancellabile verità. E non in termini di assistenza, ma di giustizia
poiché questo è lo scopo della buona politica. La vita fragile interpella non solo
la famiglia, che già se ne fa carico, ma la società intera. Chiede alla comunità e
ai suoi apparati istituzionali di non essere abbandonata ma di essere presa “a cuore”.
È evidente che ciò rappresenta un impegno per la collettività in termini di risorse
economiche e assistenziali; come è evidente che tali vite spesso non avranno da ricambiare
con compensi o consenso. Ma la vera risposta sta nel fatto che la società avrà fatto
il proprio dovere, paga di essere umana. Ecco perché quando si giunge di fronte alla
grande porta dei fondamentali dell’umano, non è possibile il silenzio da parte di
alcuno, persone e istituzioni: si è arrivati al “dunque”. Reticenze o scorciatoie
non sono possibili: bisogna dire il volto che si vuole dare allo Stato, se è una famiglia
di persone o un groviglio di interessi; se un agglomerato di individui o una rete
di relazioni su cui ciascuno sa di poter contare, specialmente nelle fasi di maggiore
fragilità.
Certo la difesa dei diritti ha fatto grandi progressi,
e dunque in qualche modo può ritenersi un dato basilare unificante le diverse formazioni
e diversi gruppi. Ma come non riconoscere una singolare tendenza arbitrariamente selettiva
di quanto viene proposto come irrinunciabile e innegoziabile? Ecco perché la già evocata
«questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica» (Benedetto XVI,
Caritas in veritate, n. 75). Dobbiamo stare attenti che una certa cultura nebulosa
non ci annebbi la vista, inducendoci a non riconoscere più, tra i principi che mandano
avanti la società, i fondamenti che non sono confessionali, come si insiste a dire,
ma semplicemente di ordine razionale. Anzi, è necessario che in un momento elettorale
si certifichi dove essi trovano dimora. Si tratta della vita, come ho detto, dal suo
concepimento alla morte naturale, dunque la rinuncia all’eutanasia comunque si presenti,
la libertà di coscienza e di educazione, la famiglia basata sul vincolo del matrimonio
tra l’uomo e la donna, la giustizia uguale per tutti, la pace. Sono le determinazioni
storico-pratiche o principi basilari, dunque non negoziabili, per i quali c’è un fondamento,
oltre che nella ragione, nella nostra stessa Costituzione, e ai quali tutti gli uomini
di buona volontà debbono attenersi. Chiunque si rifà al bene comune immediato non
può non considerarli per ciò che sono, ossia valori non derogabili sul piano della
civiltà politica, pena un arretramento antropologico e sociale. Perché la Chiesa insiste
tanto? Perché ha a cuore l’uomo! Perché è chiamata a rappresentare «la memoria dell’essere
uomini di fronte a una civiltà dell’oblio, che ormai conosce soltanto se stessa e
il proprio criterio di misura. […] La Chiesa certamente non ha soluzioni pronte per
le singole questioni. Insieme alle altre forze sociali, essa lotterà per le risposte
che maggiormente corrispondano alla giusta misura dell’essere umano. Ciò che essa
ha individuato come valori fondamentali, costitutivi e non negoziabili dell’esistenza
umana, lo deve difendere con la massima chiarezza. Deve fare tutto il possibile per
creare una convinzione che poi possa tradursi in azione politica» (Benedetto XVI,
Discorso alla Curia Romana, 21 dicembre 2012). Su questi principi i cattolici
sanno che non esiste compromesso o mediazione comunque si voglia chiamare, poiché
ne va dell’umano nella sua radice. Per questo la Chiesa è “avanguardia”. Si sente
ripetere che questi sono valori “divisivi” mentre quelli sociali sarebbero “unitivi”:
in realtà, i valori sociali dei quali abbiamo parlato sopra e che la Chiesa conosce
e pratica fin dal suo nascere (cfr At 2) stanno in piedi se a monte c’è il
rispetto della dignità inviolabile della persona. Fa specie che taluno consideri tali
principi come retaggio clericale quando sono le garanzie ultime per gli indifesi e
i senza diritto di parola. In questa cornice, ci pare senza dubbio importante la campagna
«Uno di noi» che partirà prossimamente e vuole portare nelle sedi comunitarie l’istanza
della vita, senza più selezioni. Così come stupisce che si programmi fin d’ora di
discostarsi da essi, quale passaggio necessario per “entrare” a pieno titolo nell’Europa
evoluta. Ma l’evoluzione e il progresso consistono nel negare i valori umani? E perché
dovremmo noi inseguire e copiare qualcuno che, abdicando ad essi, si è allontanato
dal circuito valoriale ed è entrato in un assolutismo del relativo, del precario,
del soggettivo, rischiando di congedarsi dalla storia? Gli esiti sociali riscontrabili
di quella impostazione ci legittimano a tanto? Perché si dovrebbe «contenere» l’Europa
– per altro necessaria – quando avanza pretese esigenti sul fronte – ad esempio –
delle regole sul lavoro, ed assecondarla invece quando vorrebbe decidere dell’equilibrio
esistenziale della nostra umana esperienza? Fa pensare la Caritas in veritate
quando avverte: «Come ci si potrà stupire dell’indifferenza per le situazioni umane
di degrado, se l’indifferenza caratterizza persino il nostro atteggiamento verso ciò
che è umano e ciò che non lo è?» (ib). Come Vescovi, sentiamo di dover far
nostro l’invito proveniente oggi anche da soggetti insospettabile, di non lasciarci
dividere dal secolarismo piegato in versione nichilista. La crisi in atto – che in
ultima istanza può essere vinta solo con la cultura della vita (cfr Messaggio CEI
per la Giornata della vita 2013), ci ricorda che senza un’apertura al trascendente
l’uomo diventa incapace alla lunga di agire per la giustizia (cfr. Benedetto XVI,
Discorso a Justitia et Pax cit.). Dunque, il bene comune immanente che tenacemente
va perseguito, deve mantenere i cieli aperti perché questo procura perentorietà e
dedizione all’iniziativa dei singoli.
La madre di tutte
le crisi è l’individualismo. E questo è figlio della cultura nichilista per cui tutto
è moralmente equivalente, nulla vi sarebbe di oggettivo e di universale valido e obbligante.
È questo il tarlo più o meno mascherato che sta modificando dal di dentro gli assetti
dell’orientamento comune e delle prassi sociali. Nel suo congenito utilitarismo, l’ideologia
individualistica concepisce «la persona come un essere fluido, senza consistenza permanente»,
per la quale non c’è una natura precostituita, è il soggetto a crearsela (cfr. Benedetto
XVI, Discorso alla Curia Romana cit.). In realtà, è la cultura del limite quella
che viene rimossa, in quanto ritenuta negazione della libertà individuale e dello
slancio vitale. Dunque, non conveniente e ingiusta. Si tratta – a ben vedere – di
una sorta di moderno delirio di onnipotenza che nella storia umana è già stato più
volte sperimentato. Una distorsione radicale del desiderio di libertà e di autorealizzazione,
una sorta di fuga dal realismo fattuale e dalla ragione stessa. Di qui l’incapacità
di legami veri, in cui l’altro sia non solo la proiezione o lo specchio di sé, ma
il terminale di una relazione a misura intera dell’essere. Si annida qui un’idea bugiarda
e infondata di un’autonomia personale che accetta di entrare in comunicazione con
l’altro solo potendola – la comunicazione – interrompere in ogni momento (cfr ib).
Ovvio che tutto questo abbia una ricaduta pesante sull’esperienza familiare e le sue
possibilità di tenuta, ma prima ancora sulla prospettiva di potervi tener fede. Ed
è uno dei motivi del calo dei matrimoni, di cui pure si è parlato negli ultimi mesi,
ma anche della grave situazione demografica. Peccato che, nei giorni successivi, l’argomento
sia rapidamente scomparso dal dibattito pubblico, quasi fosse un tema tra mille altri,
e non ci si sia interrogati adeguatamente sulle proiezioni in termini di futuro di
questa sottovalutazione. Ed ecco anche uno dei motivi per cui si continua a riproporre
il tema dei matrimoni omosessuali, quasi si trattasse di un approdo inevitabile. La
famiglia precede lo Stato, in quanto è un istituto dotato di una sua naturalità per
nulla convenzionale, perché iscritta nel codice addirittura fisico della persona:
le differenze sessuali, infatti, si richiamano vicendevolmente in vista di un mutuo
completamento nel segno dell’amore che è accoglienza e dono, grembo di nuove vite
da generare e educare. Il diritto del bambino – non al bambino – viene prima di ogni
desiderio individuale.
La famiglia si è mostrata ancora una volta come
l’elemento fondamentale per la coesione sociale delle diverse generazioni, la cellula
primordiale e il patrimonio incomparabile su cui poggia la società. Per queste ragioni
nulla può esserle equiparata, né tanto né poco. Né può essere indebolita da ideologie
antifamiliari o simil-familiari, che vorrebbero ridefinire la famiglia e il matrimonio
mutando l’alfabeto naturale e istituendo modelli alternativi che la umilierebbero
alimentando il disorientamento educativo. Si sente dire che “dove c’è amore c’è famiglia”.
Mi sembra un’affermazione suggestiva ma qualunquista, perché la coppia – per fare
famiglia – oltre l’amore richiede anche altri elementi costitutivi: capacità, doveri
e diritti, su cui la società conta e per i quali s'impegna. Tutto ciò appartiene a
quel senso comune in grado di sfidare qualunque sollecitazione: semmai ha solo bisogno
di essere confortato e consolidato. Dispiace, a dire il vero, che tutto questo non
si voglia comprendere, come se la Chiesa nutrisse degli ostinati pregiudizi. Ma se
esistono lucidità intellettuale e onestà morale, perché non è dichiarato apertamente
ciò che ad arte viene taciuto, seppur faccia qua e là capolino? E cioè, se la natura
dell’uomo non esiste, allora si può fare tutto, non solo ipotizzare il matrimonio
tra persone dello stesso sesso. La recente sentenza della Cassazione sull’adottabilità
da parte delle coppie omosessuali, oltre ad essere stata immotivatamente ampliata
nella propria valenza, non può certo mutare la domanda innata di ogni bambino: quella
di crescere con un papà e una mamma nella ricca armonia delle differenze. C’è in giro
una notevole confusione, perché si pensa che la realtà sia superata, che nessuna verità
esista, ma se ciò è vero – avverte Spaemann – allora tutto diventa questione di potere.
Ed è ciò che sta sotto i nostri occhi, ma è anche ciò che la Chiesa, «esperta in umanità»
(Paolo VI, Discorso all’Assemblea dell’Onu, 4 ottobre 1965), non potrà mai
accettare: «La verità per noi è più importante della derisione del mondo» (Benedetto
XVI, Omelia all’Epifania cit.). E questo non per opporsi al mondo moderno con
le sue luci e conquiste, i suoi aneliti giusti e nobili, ma per lo stesso amore che
ha spinto il Samaritano del Vangelo a farsi umilmente prossimo. Così come il venerabile
Paolo VI disse al termine del Concilio Vaticano II: «L’antica storia del Samaritano
è stato il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto
pervaso […]. Questo Concilio tutto si risolve nel suo conclusivo significato religioso,
altro non essendo che un potente e amichevole invito all’umanità d’oggi a ritrovare
[…] quel Dio “dal Quale allontanarsi è cadere, al Quale rivolgersi è risorgere, nel
Quale rimanere è stare saldi, al Quale ritornare è rinascere, nel Quale abitare è
vivere” (Sant’Agostino, Soliloqui, I,1 3)» (7 dicembre1965). Cari Confratelli,
mi fermo qui, anche se le questioni toccate meriterebbero probabilmente dell’altro:
ma questo verrà dal nostro confronto. Continuiamo a stare nella speranza, cioè
con il Signore e la sua beatissima Madre".