Giornata della Memoria. La testimonianza di Sami Modiano, sopravvissuto al nazismo
"per miracolo"
A Birkenau, a soli 13 anni, perse tutti gli affetti. Sami Modiano, ebreo di
Rodi, all’epoca colonia italiana, si dice sopravvissuto “per miracolo” al nazismo.
Da alcuni anni, spende ogni energia per far conoscere ai ragazzi nelle scuole la sua
esperienza affrontando per loro la fatica e il dolore di tornare ad Auschwitz. In
occasione della Giornata della Memoria che ricorre domani, Paolo Ondarza lo
ha intervistato:
R. – Quando
sono stato deportato, avevo appena 13 anni e mezzo. I miei occhi hanno visto cose
orrende …
D. – Voi siete arrivati a Birkenau nell’agosto 1944 e siete stati
liberati il 27 gennaio 1945: solo pochi mesi, ma da 2.500 che eravate siete tornati
in pochissimi …
R. – Eravamo 2.500 persone: lo sa quanti sono tornati indietro,
dei 2.500, in quei pochi mesi? Sono tornati indietro soltanto 31 uomini e 120 donne.
Presi a Rodi il 18 luglio 1944, arrivati nella rampa della morte il 16 agosto
1944: il viaggio è durato quasi un mese, in condizioni igieniche disumane che non
si potrà mai e poi mai immaginare! Dunque, già il viaggio era stato una tortura enorme.
Neanche un animale viaggia come abbiamo viaggiato noi. Se i russi avessero tardato
di poco con la liberazione, di quei 2.500 non ne sarebbe rimasto più nessuno. Poi,
arrivati alla rampa della morte c’è stata la selezione da parte di un
ufficiale tedesco: ha selezionato chi sarebbe dovuto andare a morire e chi – provvisoriamente
– sarebbe dovuto rimanere in vita.
D. – Lo ha fatto con un semplice sguardo,
un gesto di un dito …
R. - … un semplice sguardo, un gesto di un dito: ignoravamo
assolutamente che cosa significassero quei gesti, in quel momento! Seguivamo questi
gesti senza capire …
D. – Immediatamente lei fu separato dalle donne, e quindi
da sua sorella …
R. – Sì, da mia sorella Lucia. E grazie a Dio, sono stato
insieme a mio papà, mio papà Giacobbe. In quei primi giorni, io ho avuto la fortuna
di avere vicino papà. Per quanto riguarda mia sorella – anche lei era stata scelta
tra coloro che avrebbero dovuto lavorare provvisoriamente nei lavori forzati.
D.
– Sami Modiano, il suo destino sarebbe stato quello della morte nella camera a gas,
ma intervenne suo padre …
R. – Sì, grazie ad una spinta di mio papà, inizialmente
selezionato tra coloro che dovevano morire, passai dalla parte dei lavoratori. Io
avevo cugini, parenti che avevano 15, 16 anni, erano più grandi di me, che sono andati
a finire direttamente, il giorno stesso, alle camere a gas e ai forni crematori.
D.
– Lei non ebbe più notizie di sua sorella …
R. – No. Ho avuto un contatto con
lei per qualche giorno, a distanza, da lontano. Ci vedevamo a distanza dal lager
A nel quale eravamo noi uomini al lager B, nel quale erano le donne. Ma a distanza,
con gesti, ma questo ci confortava.
D. – Cioè, avevate la speranza che sarebbe
finita, prima o poi?
R. – Avevamo la speranza… Poi, ad un certo momento, quando
stai in quell’inferno, ti rendi conto che da Birkenau non c’era nessun’altra via di
uscita che la morte. E di fatto, molti si rendevano conto di questo e decidevano di
farla finita: si buttavano contro i fili spinati nei quali passava l’alta tensione,
e morivano fulminati …
D. – Suo padre non resse alla notizia della morte di
sua sorella …
R. - … no, non ha retto, poverino. Mia sorella Lucia era la cocca
di papà …
D. – Era più grande di lei?
R. – Aveva tre anni più di me.
Era una ragazza bellissima. Sai, io ho perso mamma quando avevo 11 anni e lei si era
presa l’impegno di farmi da mamma e da sorella. Quando l’ho persa, ho perso la persona
più cara che avessi al mondo, purtroppo. E subito dopo, mio papà, anche lui si è abbandonato
a se stesso, non ha voluto continuare e ha deciso di farla finita. E l’ha fatto in
un altro modo: quello di andare a presentarsi in ambulatorio, dicendo che si sentiva
male. E purtroppo, noi sapevamo molto bene che quando uno si presentava all’ambulatorio
decideva di consegnarsi alle camere a gas o ai forni crematori. Mio padre aveva scelto
questa strada, nonostante avesse tentato di consolarmi dicendo: “Non mi uccideranno,
vedrai: mi cureranno”. Ma non era vero, e lui lo sapeva: lo sapeva bene, lo sapeva
bene!
D. – Incalzati dall’arrivo dei russi, i nazisti vi condussero nella “marcia
della morte”, da Birkenau ad Auschwitz. Lei era allo stremo, condannato a finire i
suoi giorni in quell’inferno. Ma avvenne l’inatteso, l’imprevisto …
R. – Non
sarebbe dovuto rimanere in vita nessuno, nessuno a testimoniare ai russi di quello
che avevamo visto e di quello che avevamo sopportato. Ma c’è stato il miracolo: mi
accasciai a terra perché non ce la facevo più a tenermi in piedi – ero diventato uno
scheletro, un morto vivente, ero più dall’altra parte che da questa, quando avvenne
il miracolo. Io ce l’ho fatta. Non so spiegarmi come. Due persone, due prigionieri,
hanno fatto una cosa che non ha una spiegazione: si sono inchinati. Io non mi aspettavo
nessun aiuto – ma non per cattiveria e nemmeno per egoismo. In quei casi ognuno di
noi, cercava di salvare la propria pelle; nessuno aveva la possibilità di aiutare
il prossimo. Io non mi aspettavo nessun aiuto, eppure l’hanno fatto ugualmente. Mi
hanno tirato su, mi hanno trascinato per quegli ultimi metri che mi mancavano per
arrivare ad Auschwitz e poi si sono accorti che non avrebbero più potuto continuare
a trascinarmi, e mi hanno abbandonato là, in un angolo, dove c’erano altri cadaveri.
E là sono rimasto fino a quando sono entrati i russi. Non conoscevo quei due uomini,
non li avevo mai visti. Non ho avuto neanche il tempo di ringraziarli, questi due
prigionieri che io ho chiamato angeli custodi! I tedeschi credevano che io fossi un
cadavere come tutti gli altri, là, per terra, perché avevo perso i sensi: hanno visto
che nessuno si muoveva e hanno lasciato Birkenau proseguendo la “marcia della morte”.
D.
– Lei, poi, si rifugiò in una casa dove trovò altri superstiti …
R. - … sì,
mi sono rifugiato in uno dei fabbricati di Auschwitz per non rimanere tutta la notte,
con una temperatura di 20-25 gradi sotto zero. Là sono stato preso in cura da una
dottoressa russa.
D. – Quanto tempo – se il tempo può bastare – ci vuole per
tornare ad essere un uomo?
R. – Io ho una piaga che non si chiuderà mai più.
Ho i miei silenzi, i miei incubi, le mie depressioni. Continuo ancora a soffrire.
Specialmente quando incontro i ragazzi e devo spiegare tutto questo: per me è un dolore
enorme, ma lo faccio. Lo faccio perché ho capito che il Padre Eterno mi ha scelto
per trasmettere a questi ragazzi, che fanno parte di questa nuova generazione la memoria
di ciò che ho vissuto, perché non si ripeta. Perché ultimamente accadono cose che
mi distruggono: esistono oggi persone che negano, e lei deve comprendere che questo
per un sopravvissuto è un dolore enorme. Ma quello che mi fa rabbia è che se a negare
sono persone “ignoranti”, passo oltre; ma quello che mi distrugge è quando a negare
la storia sono persone di grandissima cultura: questo, veramente, mi porta indietro.
Mi porta indietro … io avevo 14 anni quando sono uscito vivo da quell’inferno, ed
avevo detto a me stesso, rimasto solo al mondo: “Spero di aver pagato abbastanza,
affinché questo non succeda mia più!”. Mi sono sbagliato! Mi sono sbagliato, e questo
mi rammarica. Vorrei chiedere a questi uomini il motivo per cui negano: io non capisco
il motivo di questo negazionismo …