Rapporto tra liturgia e spazi sacri nel libro "Ierotopi cristiani, le chiese secondo
il magistero"
Non sempre l’architettura o l’arredo di una chiesa rispondono appieno alle indicazioni
della Chiesa. Su questo aspetto ha indagato – in un saggio dal titolo "Ierotopi cristiani,
le chiese secondo il magistero”, edito dalla Libreria Editrice Vaticana – mons.
Tiziano Ghirelli, direttore dell’Ufficio diocesano beni culturali e nuova edilizia
del Culto e del Museo Diocesano di Reggio Emilia, nonché membro del Comitato scientifico
dell’Osservatorio Nazionale sull’Architettura dei Luoghi per la Liturgia. Fabio
Colagrande lo ha intervistato:
R. – Nel muovermi
sul territorio della mia diocesi, ma anche nazionale e non solo, mi sono trovato tante
volte in certe soluzioni che poco hanno a che fare con la liturgia cattolica e mi
sono chiesto: perché questo avviene? Per chi su mandato del proprio vescovo opera
in ambito dei beni culturali, che hanno una destinazione soprattutto culturale, è
naturale interrogarsi se altrove – in altri Paesi del mondo – si vivano gli stessi
problemi e le stesse condizioni, e come eventualmente siano affrontate, risolte le
diverse problematiche. Di qui, una verifica su cosa gli episcopati delle diverse nazioni
hanno prodotto negli ultimi decenni in ambito di luoghi per la celebrazione liturgica:
ecco perché "ierotopi".
D. – Possiamo cercare in sintesi di dire quali siano
state le novità conciliari in campo liturgico e quindi anche per quanto riguarda l’architettura
sacra?
R. – La vera novità credo sia data dalla nuova impostazione anche ecclesiologica,
dello spazio architettonico per la liturgia, cioè il popolo di Dio radunato, l’assemblea
liturgica come soggetto celebrante. Che il sacramento del Battesimo rendesse tutti
i fedeli "sacerdoti", ovvero "atti al culto", è una verità da sempre affermata. Ma
il Vaticano II lo ha sottolineato con una ridondanza – credo – significativa, dando
di conseguenza all’assemblea liturgica, gerarchicamente ordinata, un ruolo di rinnovata
forza come non si verificava, forse, da molti secoli in ambito cattolico.
D.
– Eppure, lei lo sottolinea, è mancata forse una comprensione, una traduzione di questi
dettami del Concilio…
R. – La sensazione è spesso quella di una grande approssimazione
nella disposizione dei luoghi per il culto e, parallelamente, di una certa superficialità
e forse anche di dilettantismo. Lo si nota in tanta sciatteria, userei proprio ancora
il termine approssimazione. Paolo VI parlava di "paccottiglia": lo si nota a volte
anche nella scarsa qualità della musica, dei canti per la liturgia. Lo si nota nella
poca emozione che si può trarre da tante celebrazioni liturgiche. Le chiese sono un’anticipazione
visibile della bellezza del Paradiso. Il nostro incedere verso l’altare è un camminare
verso la parusia, il nostro canto dovrebbe essere l’eco del canto degli angeli.
Ma quante volte riusciamo a fare questa esperienza sensibile nelle celebrazioni alle
quali partecipiamo? Di qui, anche la forte tentazione delle giovani generazioni di
fedeli di cercare quanto istintivamente sentono mancare in consolanti e nostalgiche
riproposizioni di linguaggi del passato, forse. Ma in tal modo, non solo il problema
non è affrontato, ma addirittura – mi sentirei di dire – dissacrato in un rifiuto
del presente che è quello che il Signore stesso ci da da vivere.
D. – Manca
una buona formazione liturgica?
R. – La riforma liturgica, probabilmente, è
stata colta solo nei suoi aspetti formali, superficiali, un po’ esterni. Probabilmente,
andrebbe rivisto il nostro modo di intendere la liturgia che è l’atto fondamentale
che ci fa cristiani, di rivolgerci al Signore sapendo che le nostre preghiere arrivano
fino a Lui per il tramite del Cristo.