Essere rifugiati nella crisi: nasce "RE-Lab" per aiutare nella costruzione d'impresa
Trovare un lavoro, un alloggio, in un momento di crisi come quello che si sta vivendo
in Italia, è impossibile per chiunque, ancor di più per gli stranieri e, tra loro,
soprattutto per i rifugiati. La maggior parte è disoccupata, gli altri sono impiegati
in lavori che non riflettono l’esperienza pregressa o il titolo di studio. Il progetto
"RE-Lab" intende supportare queste persone aiutandole in progetti di micro-impresa,
tenendo anche conto che, in controtendenza con gli altri dati, la partecipazione di
stranieri ad attività indipendenti quest’anno è cresciuta: oltre il 57% dei titolari
di imprese in Italia sono infatti stranieri (Dossier Statistico Immigrazione 2012
Caritas Migrantes). FrancescaSabatinelli ha intervistato GiampietroPizzo, presidente di Microfinanza e sviluppo, associazione partner del progetto
"RE-Lab", promosso da Ilo, Cir, Micro Progress Onlus, Comune di Venezia e diretto
a titolari di protezione internazionale:
R. – I rifugiati,
titolari di protezione internazionale, sono doppiamente in difficoltà dal punto di
vista della possibilità di costruire un progetto non solo di lavoro, ma di vita. Oggi,
la condizione economica e sociale di crisi rende estremamente difficile l’accesso
al mercato del lavoro. Sono in difficoltà perché, all’interno delle stesse comunità
straniere, queste persone si ritrovano spesso prive di un capitale sociale, di una
struttura di relazioni e di accompagnamento nel nuovo luogo in cui vivono e dove possono
cercare una forma di autonomia. Allora, lavorare sulla capacità di costruire un percorso
di autonomia e di affermazione individuale diventa fondamentale. L’idea è, in un tempo
relativamente breve, di identificare queste persone, formarle, accompagnarle, finanziarle,
per permettere loro di avviare un progetto d’impresa e fare in modo che, soprattutto
durante la fase più critica, più difficile, di inizio, di start-up dell’impresa,
possano essere accompagnate e assistite.
D. – Sicuramente, un progetto estremamente
interessante e soprattutto di grande aiuto. Però, non possiamo non calcolare che è
un progetto che si scontra con dinamiche istituzionali in Italia, che sono tra le
peggiori in Europa per quanto riguarda l’accoglienza dei rifugiati…
R. – Quello
che noi vorremmo fare è costruire in maniera molto pratica, concreta, condizioni di
diversa cooperazione e collaborazione istituzionale. Non è tutto nero e non è tutto
impossibile. Esistono operatori territoriali competenti, esistono istituzioni finanziarie
di credito specializzate nel riuscire a risolvere i problemi di accesso al credito
di persone considerate non "bancabili". Esistono enti locali che da anni lavorano
su questi temi. Sicuramente, la situazione non è facile, non partiamo da una situazione
di vantaggio ma, probabilmente, a partire da questa esperienza concreta, da questa
sfida che vogliamo assumere, vogliamo misurare come sia possibile modificare comportamenti,
assumere diverse responsabilità e, soprattutto, risolvere incomprensioni fondamentali.
D. – Quante persone coinvolgerà il progetto e quali sono i tempi?
R.
– Il progetto mira ad identificare inizialmente un numero limitato di persone, tra
90 e 120, che saranno selezionate e che quindi accederanno ad un percorso formativo
molto operativo. Non si tratta semplicemente di dare un’infarinatura, ma di portare
queste persone a formulare un progetto di impresa che potrebbe essere anche di tipo
cooperativo, o di inserimento in strutture esistenti. Alla fine di questo percorso
formativo, si arriverà a formulare almeno 20 business-plan, e questi 20 business-plan
saranno accompagnati nel momento più difficile che è quello della valutazione del
loro finanziamento presso istituzioni finanziarie. Il progetto mette comunque a disposizione
una dotazione di capitale economico di base che consenta quindi a queste imprese di
fare leva anche tra i fondi propri e il credito richiesto.
D. – Tra gli immigrati
c’è un tasso di disoccupazione spaventoso, ma c’è anche un tasso di sottoccupazione:
ci sono persone che sono estremamente qualificate, ma che in Italia non riescono assolutamente
a dar vita a questa loro professionalità…
R. – Non c’è dubbio. La situazione
dalla quale partiamo è una situazione drammatica. Il 50% degli stranieri in Italia
oggi ha problemi occupazionali e la sottoccupazione. Il non rispetto delle condizioni
minime di lavoro, l’informalità, l’illegalità sono una piaga per quanto riguarda moltissimi
stranieri nel nostro Paese. E’ evidente che il nostro progetto non ha l’ambizione
di dare una risposta strutturale, però quello che vorremmo fare è costruire un metodo:
verificare se attraverso questa strada sia possibile costruire una buona pratica da
proporre poi a molti altri enti locali, a molte altre istituzioni e, in primis – direi
– ai Ministeri competenti, che in questo caso sono coinvolti direttamente nel progetto:
il Ministero degli Interni e il Ministero del Lavoro. Il problema è costruire buone
pratiche davvero, che costruiscano quindi anche una base di riflessione per modificare
le policy e quindi probabilmente per definire anche percorsi diversi di azione
che coinvolgano i territori. In questo momento, da un punto di vista lavorativo è
fondamentale dimostrare che gli stranieri e i rifugiati sono una risorsa per l’Italia
e quindi non sono un problema.