Mali: in arrivo 2500 soldati francesi. Bombardata Diabaly
In Mali, quinto giorno di bombardamenti francesi contro i gruppi jihadisti nel Nord
del Paese. Gli islamisti si sono ritirati dalle principali città che occupavano, incluse
Timbuctu, Gao e Douentza, per l'avanzata delle truppe di Parigi. Intanto la Francia
conferma che i soldati, nel Paese africano, oggi 750, cresceranno progressivamente.
Il servizio di Massimiliano Menichetti:
Diventeranno,
in breve tempo, 2500 i soldati francesi in Mali impegnati nella lotta contro i gruppi
jihadisti, che controllano il Nord del Paese. La conferma, da fonti del ministero
della Difesa, nel giorno in cui il presidente Hollande, in visita egli Emirati Arabi
Uniti, ha precisato che il contingente attuale, impegnato nel Paese africano, “conta
750 uomini e crescerà gradualmente”. Intanto, il quinto giorno vede i bombardamenti
francesi che si stanno concentrando prevalentemente sulla città di Diabaly, in mano
ai ribelli, a 400km dalla capitale Bamako. Gli islamisti avrebbero abbandonato gli
insediamenti più a nord per riorganizzare l’offensiva. L’Algeria in questo scenario
ha chiuso le frontiere, e mentre l’Onu appoggia l’intervento francese, rimane critico
l’Egitto. Il segretario alla Difesa americano, Leon Panetta, ribadisce che le operazioni
militari sono cruciali per impedire ad al Qaeda di stabilire basi da cui lanciare
attacchi contro Europa e Stati Uniti. Drammatica la situazione umanitaria: secondo
l'Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari sarebbero 150 mila i rifugiati
e oltre 230 mila gli sfollati. I maliani finora avrebbero trovato riparo nel Sud del
Paese, in Mauritania, Niger, Burkina Faso e Algeria
Sulle cause di questo conflitto,
Massimiliano Menichetti ha raccolto l’analisi di Arrigo Pallotti, docente
di Storia e istituzioni politiche dell’Africa contemporanea dell’Università di Bologna
e coautore del libro "L’Africa subsahariana nella politica internazionale": R. – Questo
scenario in Mali è una delle conseguenze della caduta del regime di Gheddafi in Libia.
In un contesto storico di forti tensioni tra il Nord e il Sud del Paese, nel momento
in cui gruppi armati di Tuareg, che avevano lavorato al soldo di Gheddafi, lasciano
la Libia e tornano in Mali, si scatena un conflitto. Il conflitto inizialmente ha
rivendicazioni indipendentiste, ma poi reti legate al terrorismo internazionale penetrano
questa ribellione e, di fatto, l’intero movimento assume toni molto più radicali,
quindi anche legati al terrorismo internazionale.
D. – Proprio su questo aspetto
del terrorismo internazionale, il segretario alla Difesa americano, Leon Panetta,
ha ribadito che queste operazioni sono cruciali, per impedire che Al Qaeda riesca
a stabilire basi da cui poter lanciare attacchi contro l’Europa e gli Stati Uniti…
R.
– Questa è la lettura prevalente in tutti gli ambienti diplomatici, non solo in Mali,
ma anche in altre parti dell’Africa – penso alla Somalia, al Corno d'Africa – dove
si annidano verosimilmente basi e attività del terrorismo internazionale. Il problema
di fondo, però, è capire come questo genere di attività potranno essere bloccate,
non semplicemente con un’azione militare, ma con una ricostruzione di più lungo periodo,
con lo sviluppo in queste regioni.
D. – La presenza militare francese aumenterà
nel Paese fino ad arrivare a 2500 unità. Come giudicare questo intervento, peraltro
ben salutato dall’Onu?
R. – C’è un consenso piuttosto ampio a livello internazionale
sul fatto che, a questo punto, fosse necessario intervenire militarmente. C’è stata
un’offensiva dei ribelli contro il governo, che quindi si è trovato davvero davanti
alla possibilità di cadere ed essere spazzato via. Non dimentichiamoci però che la
Francia è l’ex potenza coloniale di gran parte dell’Africa occidentale e che quindi
ha un interesse cocente a non lasciare che la situazione precipiti oltre una certa
misura, in uno dei Paesi del suo vecchio impero coloniale. Il problema, però, che
alcuni sollevano dal punto di vista africano è che un intervento militare, da una
parte, potrà stabilizzare la situazione, ma non risolverla. Non dimentichiamoci che
la risoluzione del Consiglio di Sicurezza, con cui è stato legittimato questo intervento
chiedeva anche che venisse sostenuto il dialogo politico in Mali - e, dall’altra,
alcuni osservatori africani mettono in luce il fatto che si rafforza una visione strumentale
dell’Africa. Ovvero il pensiero è che si intervenga in Africa, perché l’Occidente
si sente minacciato e non perché ci sono preoccupazioni legate alla democrazia, alla
lotta alla povertà in questo continente. Devo dire che mi auguro davvero che le Nazioni
Unite riescano a riallacciare un dialogo politico in Mali, coinvolgendo appunto la
diplomazia africana e la diplomazia regionale. Pensare di risolvere la questione con
bombardamenti, temo sia una visione piuttosto miope.
D. – Qual è lo scenario,
dunque, che si profila a breve, partendo dal presupposto che chiaramente è in corso
un intervento militare?
R. – La mia impressione è che un’opzione militare,
in questa regione, rischi di scatenare a catena un’altra serie di conflitti, non solo
a livello regionale. Pensiamo alla posizione dell’Algeria, molto critica rispetto
a questo intervento, rispetto invece a Paesi come la Nigeria, molto più decisi riguardo
all’opzione militare. Il problema è che questi interventi cominciano, ma non si sa
quando finiscono.