Haiti a tre anni dal sisma: la testimonianza di una volontaria
Haiti ha ricordato le vittime del sisma che ha colpito l’isola il 12 gennaio del 2010.
Da allora molte cose sono cambiate grazie alla solidarietà internazionale e alla determinazione
della popolazione che ha reagito dinanzi alle difficoltà. Restano però molti i problemi
da risolvere soprattutto nella lotta alla malnutrizione e nella sicurezza alimentare
ma sono tanti i volontari presenti che aiutano. Tra di loro c’è Fiammetta Cappellini
di Avsi, Associazione Volontari per il Servizio Internazionale, raggiunta telefonicamente
ad Haiti da Benedetta Capelli:
R. - Sicuramente
è cambiato molto nel corso di questi tre anni. C’è stato un enorme lavoro di accompagnamento
della popolazione, di risposta all’emergenza e al volto di Haiti. Oggi tutto è estremamente
differente rispetto all’immediato post catastrofe, per fortuna, perché sono stati
momenti realmente drammatici per tutti quanti e durissimi per un lungo periodo. All’indomani
del terremoto abbiamo contato tra i 250mila e i 320mila morti, a seconda delle differenti
fonti, e un numero di sfollati superiore al milione, vicino al milione mezzo. A tre
anni dal terremoto ci sono ancora 300mila persone che non hanno trovato una sistemazione
definitiva e che vivono in alloggi di fortuna. E’ un numero ancora altissimo ma dice
già il grande lavoro che è stato fatto in favore dei terremotati. Purtroppo, Haiti
era un Paese molto difficile, molto povero e complesso, con equilibri fragili già
prima del terremoto. Una catastrofe di questo tipo ha aumentato questa fragilità e
tanti problemi non sono ancora risolti. Haiti resta un Paese poverissimo con una disoccupazione
molto alta e con una percentuale della popolazione che vive sotto una soglia di povertà
veramente altissima: si parla del 75 per cento della popolazione.
D. – Raccogliendo
testimonianze di persone che lavorano ad Haiti, molti ci raccontano che la popolazione
si sta un po’ abituando a questa situazione di emergenza e sembra accontentarsi di
poco e forse bisognerebbe far fare uno scatto di orgoglio, di dignità. Tu ritrovi
nella tua esperienza questa indicazione oppure puoi raccontarci qualcosa di diverso?
R.
– In parte io confermo questo sentimento però è complesso valutarlo. All’indomani
del terremoto si è detto molto bene, si è espressa ammirazione per questa capacità
di resistenza della popolazione haitiana, della loro capacità di reagire, di cercare
di adattarsi a quella che ormai era la nuova situazione, trovando strategie per sopravvivere.
Adesso, a distanza di tempo la vediamo più negativamente. Io, però, trovo che la popolazione
haitiana sia molto orgogliosa e quello che noi vediamo nell’implementazione delle
nostre attività è che la prima richiesta è questa: dateci lavoro così che noi possiamo
avere le risorse per rispondere alle necessità delle nostre famiglie. Trovo che questa
sia una manifestazione di un grande orgoglio, di autostima, di desiderio di farcela.
Purtroppo dare un lavoro a queste persone per noi è ancora una sfida molto difficile
da risolvere.
D. – In Italia, tre anni fa, le immagini che vennero da Haiti
furono scioccanti però l’opinione pubblica fu molto colpita dalla tua storia personale
e dal fatto che sei rimasta ad Haiti, mandando in Italia il tuo bambino Alessandro.
Oggi a distanza di questi tre anni rifaresti la stessa scelta?
R. – Sicuramente.
Io non avevo alcuna possibilità di tenere il mio bambino qui con me in quel contesto.
Come mamma non potevo pensare che questo fosse il bene del mio bambino. Ugualmente
i nostri progetti, il nostro staff avevano bisogno che io restassi ed ero contenta
di potermi rendere utile, di vedere che le nostre competenze erano realmente proficue
per la gente. Quindi non è stata per me un’esperienza negativa, è stato duro come
mamma, come genitore, separarmi dal mio bambino ma ho visto lui sereno, vicino a persone
che gli hanno voluto bene e che l’hanno fatto crescere bene in questi mesi di lontananza.
Rifarei assolutamente la stessa cosa.
D. - Oggi sei un po’ haitiana anche tu…
Sei sposata e tuo marito è haitiano, hai una famiglia, ma che cosa ti spinge a restare
in un contesto difficile come quello che hai descritto, quello di Haiti?
R.
– L’impressione è che qui si viva una vita vera legata ai valori più veri e che appoggiare
questa popolazione sia veramente costruire il futuro, dare una possibilità di futuro
a un popolo che chiede principalmente questo. Pensare di poter dare un contributo,
seppure molto piccolo, anche a prezzo di sacrifici, per me resta una motivazione fortissima.