Scuola di pace. Il prof. Moro: tutelare lavoro e diritti della persona
Si è conclusa ieri a Roma, la "Scuola di Pace" promossa a Roma dalla Fraternità Francescana
Frate Jacopa, incentrata sul Messaggio di Benedetto XVI per la Giornata Mondiale della
Pace del 2013. All’evento, ha preso parte anche l’economista dell’Università Statale
di Milano, Riccardo Moro, che al microfono di Alessandro Gisotti si
sofferma sulla sintesi tra sviluppo sociale e la pace, sottolineata dal documento
del Papa per la pace:
R. – Credo che
un elemento interessante del Messaggio sia questa visione integrale e globale dell’uomo.
In qualche modo torniamo alla Popolorum progressio, dove si richiama questo
sviluppo integrale di ogni uomo e di tutto l’uomo. Non possiamo parlare di pace e
di diritti in modo frammentario, prendendone in considerazione solo alcuni. La pace
esiste quando c’è una pienezza di vita in cui le persone possono vivere con serenità
e guardare con serenità al proprio orizzonte futuro, costruire relazioni autentiche
fra di loro. Questo c’è quando ognuno non dipende dalla discrezionalità degli altri,
vale a dire quando uno dispone di un lavoro attraverso il quale può mantenere con
dignità la propria famiglia. Ci sono pesanti questioni legate alla sufficienza alimentare,
alla sostenibilità ambientale, al mercato finanziario che regola le materie prime
sia in campo alimentare sia in campo energetico e, dunque, ambientale. Se noi non
troviamo gli strumenti per regolare in modo equilibrato queste dinamiche sarà molto
difficile avere come risultato la pace.
D. – Sempre più nel dibattito politico
ed economico ci siamo abituati ad ascoltare il riferimento alla formula “bene comune”.
Forse, però, non sempre si ha chiara la natura di questo bene comune che, invece,
viene ben spiegata in questo documento…
R. – Io onestamente credo che ci sia
una gran confusione sul significato di queste parole. Il documento, da questo punto
di vista, aiuta a coglierne i fondamenti. Credo che se c’è un lavoro da fare, e viene
detto anche nel documento nella parte finale, è un lavoro anche educativo, pedagogico:
cioè, se il messaggio è un messaggio legato alla pace, la pace si costruisce anche
attraverso un’educazione, un’azione educativa, che aiuta a leggere come diceva il
Concilio i “segni dei tempi”, ma aiuta anche a proporre categorie interpretative.
Questa del bene comune è a fondamento ed è quasi abusata nel linguaggio ma probabilmente
dovrebbe essere riscoperta.
D. – Il documento si riferisce, potremmo dire naturalmente,
anche alla Pacem in terris di cui proprio quest’anno ricorre il 50.mo anniversario.
Quanto questo documento straordinario è ancora attuale in un tempo così diverso con
crisi, soprattutto a causa della globalizzazione, così diverse e forse anche più complesse
di quelle precedenti?
R. – Io credo che sia attualissimo. In pochi anni noi
abbiamo avuto la produzione di due documenti straordinari da questo punto di vista:
la Pacem in terris e la Popolorum progressio, in cui prima Giovanni
XXIII in qualche modo dà i canoni che sono validissimi attuali tuttora per parlare
di pace a livello internazionale di convivenza e successivamente, nella Popolorum
progressio, Paolo VI offre strumenti per fare una lettura più integrale e più
globale di questa convivenza, cioè la questione dello sviluppo, nuovo nome della pace.
Su quei binari in qualche modo si è sviluppato il Magistero di Giovanni Paolo II e
si sviluppa oggi il Magistero di Benedetto XVI. I quattro pilastri, per tornare alla
Pacem in terris: giustizia, solidarietà-amore, libertà e democrazia, sono ancora
le questioni fondamentali per il pianeta.