Caritas Ambrosiana: "no profit" in prima linea per l'emergenza Nord Africa
È stata prorogata fino al 28 febbraio prossimo l’assistenza per i profughi del Nord
Africa arrivati in Italia dopo la ‘Primavera araba’. In questi due mesi, saranno le
prefetture ad essere incaricate della gestione, con regole diverse rispetto alla fase
dell’emergenza. La preoccupazione di molte istituzioni umanitarie e ‘no profit’ è
che il peso dell’assistenza si sposti eccessivamente sulle realtà del terzo settore
e sugli enti locali, già molto impegnati. Ascoltiamo, nell’intervista di Davide
Maggiore, il commento di Luciano Gualzetti, vicedirettore di Caritas
Ambrosiana:
R. - Questa
è un’emergenza gestita fin dall’inizio con le risorse disponibili. Le risorse statali
qui in Lombardia sono state molto defilate, tranne per alcune situazioni egregie a
macchia di leopardo di comuni che si sono attivati. Quindi, il terzo settore si è
trovato in prima linea. Il problema sorgerà nel momento in cui il progetto ‘Emergenza
Nord Africa’ si interromperà: su chi cadrà il peso di queste persone, che comunque
hanno titolo a rimanere, ma che per la maggior parte non hanno concluso un percorso
di apprendimento della lingua, piuttosto che riuscire a trovare un lavoro per poi
avere una casa autonoma? Tutte queste situazioni rischiano di ricadere sul terzo settore
o sui comuni. Questa è la grande preoccupazione, e resterà se il progetto verrà interrotto
il 28 febbraio, tra l’altro in pieno inverno.
D. - Possiamo concentrarci proprio
su quest’ultimo elemento, sulle conseguenze concrete?
R. - Non stiamo parlando
solo della città di Milano, che comunque è attrezzata; stiamo parlando anche di tutte
le Caritas lombarde. Ad esempio, la Caritas di Brescia si occupa di profughi che si
trovano in alcune valli, quindi in paesini che ovviamente non saranno in grado di
farsene carico. Da questo punto di vista, perciò, almeno lo spostamento verso una
stagione più mite può consentire un’uscita dei profughi verso soluzioni che non li
mettano in estrema difficoltà.
D. - Quanto sono importanti - invece - i percorsi
di integrazione, per una vera soluzione dell’emergenza?
R. - Tutte le situazioni
di emergenza devono essere accompagnate verso una situazione di ordinarietà. Dallo
straordinario all’ordinario, al quotidiano, come spesso la Caritas italiana cerca
di ricordare. Qui si tratta di persone che provengono da situazioni estremamente drammatiche;
quindi, noi abbiamo dovuto cercare di rispondere a tutte le esigenze. Le prime erano
quelle legali: l’accompagnamento, l’orientamento alla domanda da rifugiato; ma poi
ci siamo subito domandati: che cosa fare per arrivare a dare un’autonomia? Per arrivare
ad avere un lavoro bisognava imparare l’italiano. Abbiamo quindi organizzato nove
corsi di lingua italiana ad hoc, altri di formazione professionale per insegnare
mestieri come imbianchino, meccanico, saldatore… con dei tirocini, delle borse lavoro.
Tutto questo perché solo attraverso l’autonomia linguistica e il lavoro, una persona
può immaginare di avere una casa propria, e quindi di uscire dall’emergenza. Noi abbiamo
dovuto trovare nelle parrocchie degli appartamenti, trovare in alcuni pensionati -
che erano per i lavoratori italiani - degli spazi per queste persone; ma non si poteva
lasciarli ‘parcheggiati’ lì, bisognava promuovere delle iniziative per arrivare ad
un’autonomia. Devo dire che gran parte di questi hanno condiviso un percorso e sono
arrivati ad un buon grado di autonomia. Questi progetti - anche se non sono ancora
conclusi - sono verso una fase di soluzione e di ingresso nel mondo del lavoro. Per
noi ogni emergenza significa rispondere all’esigenza fondamentale delle persone, che
è quella di accompagnarle verso un’autonomia, altrimenti queste rimangono sempre dipendenti
dall’aiuto di una Caritas o di un ente locale, e questo ovviamente non fa uscire nessuno
dall’emergenza.