2013-01-03 14:34:06

Caritas Ambrosiana: "no profit" in prima linea per l'emergenza Nord Africa


È stata prorogata fino al 28 febbraio prossimo l’assistenza per i profughi del Nord Africa arrivati in Italia dopo la ‘Primavera araba’. In questi due mesi, saranno le prefetture ad essere incaricate della gestione, con regole diverse rispetto alla fase dell’emergenza. La preoccupazione di molte istituzioni umanitarie e ‘no profit’ è che il peso dell’assistenza si sposti eccessivamente sulle realtà del terzo settore e sugli enti locali, già molto impegnati. Ascoltiamo, nell’intervista di Davide Maggiore, il commento di Luciano Gualzetti, vicedirettore di Caritas Ambrosiana:RealAudioMP3

R. - Questa è un’emergenza gestita fin dall’inizio con le risorse disponibili. Le risorse statali qui in Lombardia sono state molto defilate, tranne per alcune situazioni egregie a macchia di leopardo di comuni che si sono attivati. Quindi, il terzo settore si è trovato in prima linea. Il problema sorgerà nel momento in cui il progetto ‘Emergenza Nord Africa’ si interromperà: su chi cadrà il peso di queste persone, che comunque hanno titolo a rimanere, ma che per la maggior parte non hanno concluso un percorso di apprendimento della lingua, piuttosto che riuscire a trovare un lavoro per poi avere una casa autonoma? Tutte queste situazioni rischiano di ricadere sul terzo settore o sui comuni. Questa è la grande preoccupazione, e resterà se il progetto verrà interrotto il 28 febbraio, tra l’altro in pieno inverno.

D. - Possiamo concentrarci proprio su quest’ultimo elemento, sulle conseguenze concrete?

R. - Non stiamo parlando solo della città di Milano, che comunque è attrezzata; stiamo parlando anche di tutte le Caritas lombarde. Ad esempio, la Caritas di Brescia si occupa di profughi che si trovano in alcune valli, quindi in paesini che ovviamente non saranno in grado di farsene carico. Da questo punto di vista, perciò, almeno lo spostamento verso una stagione più mite può consentire un’uscita dei profughi verso soluzioni che non li mettano in estrema difficoltà.

D. - Quanto sono importanti - invece - i percorsi di integrazione, per una vera soluzione dell’emergenza?

R. - Tutte le situazioni di emergenza devono essere accompagnate verso una situazione di ordinarietà. Dallo straordinario all’ordinario, al quotidiano, come spesso la Caritas italiana cerca di ricordare. Qui si tratta di persone che provengono da situazioni estremamente drammatiche; quindi, noi abbiamo dovuto cercare di rispondere a tutte le esigenze. Le prime erano quelle legali: l’accompagnamento, l’orientamento alla domanda da rifugiato; ma poi ci siamo subito domandati: che cosa fare per arrivare a dare un’autonomia? Per arrivare ad avere un lavoro bisognava imparare l’italiano. Abbiamo quindi organizzato nove corsi di lingua italiana ad hoc, altri di formazione professionale per insegnare mestieri come imbianchino, meccanico, saldatore… con dei tirocini, delle borse lavoro. Tutto questo perché solo attraverso l’autonomia linguistica e il lavoro, una persona può immaginare di avere una casa propria, e quindi di uscire dall’emergenza. Noi abbiamo dovuto trovare nelle parrocchie degli appartamenti, trovare in alcuni pensionati - che erano per i lavoratori italiani - degli spazi per queste persone; ma non si poteva lasciarli ‘parcheggiati’ lì, bisognava promuovere delle iniziative per arrivare ad un’autonomia. Devo dire che gran parte di questi hanno condiviso un percorso e sono arrivati ad un buon grado di autonomia. Questi progetti - anche se non sono ancora conclusi - sono verso una fase di soluzione e di ingresso nel mondo del lavoro. Per noi ogni emergenza significa rispondere all’esigenza fondamentale delle persone, che è quella di accompagnarle verso un’autonomia, altrimenti queste rimangono sempre dipendenti dall’aiuto di una Caritas o di un ente locale, e questo ovviamente non fa uscire nessuno dall’emergenza.







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