Usa: Obama al lavoro per evitare il “fiscal cliff”
“Sono all’accordo” per evitare il fiscal cliff. Parola di Barack Obama, che
ha offerto un compromesso ai repubblicani in Congresso. “Sono andato loro incontro
a metà strada – ha riferito il capo della Casa Bianca – sulle tasse e sulla spesa”.
Dichiarazioni che giungono dopo che il piano dello speaker della Camera, John Boehner
è stato cancellato perché non aveva i voti per essere approvato. A questo punto slitta
tutto a dopo Natale. Ma cosa accadrebbe negli Stati Uniti, se entro il 30 dicembre
non si riuscisse a superare questa impasse? Salvatore Sabatino ha girato la
domanda ad Angelo Baglioni, docente di Economia internazionale presso l’Università
Cattolica di Milano:
R. – Tecnicamente,
quello che accadrebbe da gennaio in avanti è che scatterebbero una serie di aumenti
automatici di tasse e tagli di spesa, per una cifra enorme: circa 600 miliardi di
dollari complessivamente, che anche per un’economia grande come quella americana rappresentano,
comunque, una fortissima correzione fiscale e che quindi, naturalmente, potrebbe portare
il Paese in recessione o comunque determinare un forte impatto negativo sulla crescita
abbastanza debole per gli standard americani in corso. Tranne poi, naturalmente, successive
manovre di aggiustamento dopo la fine di quest’anno.
D. – Certamente, Obama
già alla sua rielezione sapeva che i primi problemi da affrontare sarebbero stati
quelli economici, che erano stati messi un po’ da parte durante la campagna elettorale.
E ora, quali sono le mosse che ci possiamo attendere dalla Casa Bianca?
R.
– Io credo che Obama farà di tutto, comunque, per raggiungere un accordo. Del resto,
una situazione di questo tipo si era già verificata un anno e mezzo fa e, seppure
all’ultimissimo minuto, un accordo si era trovato. E’ chiaro che il margine di contrattazione
è stretto e riguarda, come sempre, la tassazione sul ceto medio, sulla quale c’è una
certa resistenza ad aumentare la pressione fiscale. D’altra parte, invece, ci sono
i programmi di assistenza sanitaria e di welfare, che i repubblicani vorrebbero ridurre
mentre i democratici, naturalmente, vorrebbero difenderli.
D. – Preoccupazione
è stata espressa dalla Cina che, avendo acquistato gran parte del debito americano,
sarebbe travolta dall’onda di piena della crisi americana. Un attore importante, Pechino,
in questa vicenda …
R. – Sì, la Cina naturalmente è molto esposta verso il
debito americano. C’è da dire che, anche sulla base dell’esperienza di un anno e mezzo
fa – quando ci fu un downgrading del debito americano da parte di un’agenzia
di rating – questo non ebbe tuttavia un grosso impatto sul mercato, nel senso che
il fiscal cliff è un problema molto tecnico legato ad una particolare clausola
della legislazione americana che impone periodicamente al Congresso di trovare un
accordo per poter aumentare la quantità di debito che viene emesso. E’ un tipo di
regola che, per esempio, non c’è in molti Paesi europei. E’ un fatto tecnico che non
incide necessariamente sulla solvibilità del Paese e quindi naturalmente ci sarà,
se non si trovasse un accordo, una forte turbolenza sul mercato dei titoli americani,
che però potrebbe anche essere riassorbita in tempi abbastanza rapidi.
D. –
Anche l’Europa guarda con preoccupazione agli Stati Uniti: i mercati sono in calo.
Il fiscal cliff avrebbe ricadute concrete, secondo lei, sul Vecchio Continente?
R.
– E’ chiaro che nell’ipotesi peggiore – che, ripeto, non è detto si verifichi – cioè
che si vada a una mancanza di accordo e di conseguenza a questi tagli automatici di
spesa e aumenti di tasse, e ciò avesse un forte impatto negativo sulla congiuntura,
sul ciclo americano, tramite il commercio internazionale, questo avrebbe ovviamente
un effetto negativo anche sull’economia europea. La nostra capacità di esportare beni
nell’area geografica statunitense sarebbe seriamente compromessa, se l’economia americana
dovesse avere una battuta d’arresto, questo è chiaro.