Iraq, ieri giornata di sangue. Il presidente Talabani colpito da ictus
Il presidente dell’Iraq, Talabani, è stato colpito da un ictus. La notizia è giunta
questa mattina, mentre il Paese era scosso per l’aggiornamento delle violenze di ieri:
42 persone, tra civili, agenti di polizia e soldati sono state uccise e un centinaio
sono rimaste ferite. La nuova serie di attentati è avvenuta in varie province dell'Iraq
contro forze di sicurezza, minoranze religiose e pellegrini sciiti iraniani. Esattamente
un anno fa, si completava il ritiro delle forze americane dall’Iraq. Della situazione,
Fausta Speranza ha parlato con il prof. Marco Lombardi, docente di Politica
della sicurezza all’Università Sacro Cuore di Milano:
R. – La prima
cosa da dire è che l’Iraq lo considero come il Paese attualmente più pericoloso. Lei
sa che sono spesso in Afghanistan, e l’Afghanistan dal mio punto di vista è meno pericoloso
dell’Iraq. L’Iraq è il risultato anche di un intervento disastroso – se vogliamo prendere
il discorso alla larga – nel senso che sostituire una leadership senza avere un’alternativa
è sempre una cosa drammatica. Poi, intervenire presupponendo di poter portare un modello
di governance che si pensa globale, e che invece non lo è, è un altro dramma.
Poi, ci troviamo di fronte a centri di potere che godono di massima libertà nell’affermare
la propria capacità con le milizie; a un Paese in cui la criminalità spadroneggia,
perché tanti attentati sono dovuti anche puramente alla criminalità. Inoltre, è un
Paese che attorno a sé ha una serie di Paesi confinanti, tutti in conflitto tra di
loro tranne forse sul fatto che nessuno di essi ha interesse che l’Iraq diventi una
grande potenza regionale. Tutte queste cose messe insieme fanno prevedere un futuro
nerissimo per l’Iraq.
D. – Che dire delle forze politiche?
R. – Le forze
politiche non riescono a combinare nulla. Per quale ragione? Tuttora, stiamo assistendo
a una epurazione degli ex-baatisti, anche se il tempo è passato. Soprattutto, stiamo
assistendo ad una guerra costante tra sunniti e sciiti e questa non fa che bloccare
il processo di decisione. Non dimentichiamo anche che all’interno del governo c’è
una minoranza – pure importante – di deputati che rimandano all’esercito del Mahdi
e quindi alle pressioni iraniane. Direi pertanto che il processo decisionale iracheno
è completamente bloccato. In più, si tratta di una dimensione politica che non ha
nessun interesse a prendere in conto le disperate situazioni della gente normale,
di chi vive in Iraq tutti i giorni, di quei cittadini che hanno – ricordiamolo – la
corrente elettrica per cinque, sei, sette ore al giorno, pur vivendo sul petrolio;
che non hanno servizi e che non hanno nessun tipo di assistenza.
D. – Torniamo
un po’ al contesto geopolitico intorno all’Iraq, per parlare però di possibili influenze
sulla sfera politica, sul quadro politico. Secondo lei, è cambiato qualcosa, di recente?
Sta cambiando qualcosa?
R. – Io non credo stia cambiando molto, ultimamente.
Ripeto: le pressioni attorno sono tutte interessate e in realtà, anche al livello
politico del Paese, quello che crea il confronto all’interno del parlamento sono evidentemente
proprio le diverse pressioni iraniane, ma anche wahabite. E comunque, c’è disinteresse
che un Iraq che potrebbe essere la grande potenza regionale, anche con relazioni forti
con l’Occidente, possa diventare tale. Teniamo anche conto che all’interno delle forze
politiche si scontrano interessi molto frammentati del Paese. Il Paese è completamente
disgregato: essere a Baghdad non è essere a Erbil, non è essere a Sulaymaniyah… E’
un Paese che definirlo "a macchia di leopardo" è dir poco: è completamente frammentato
e disgregato. E, quindi, si uniscono queste due congiunture: interessi disgregatori
che vengono dall’esterno e disinteresse aggregatore che viene dall’interno.