In Brasile, i comboniani al fianco dei ragazzi vittime di violenza e povertà
Il Brasile, Paese in rapida crescita economica, vive ancora forti diseguaglianze sociali.
Spesso la miseria è associata alla presenza di criminalità diffusa, soprattutto nelle
periferie delle città. Tra coloro che cercano di contrastare questo fenomeno ci sono
i missionari, che si rivolgono in particolare ai giovani. Padre Saverio Paolillo
è un sacerdote comboniano, che opera nella città di Serra, nello Stato sudorientale
di Espirito Santo. Davide Maggiore lo ha intervistato:
R. – Purtroppo
la povertà, la mancanza di condizioni degne di vita crea molte volte terreno fertile
affinché la malavita possa arruolare, soprattutto tra gli adolescenti, persone disponibili
a "collaborare". Questo è il nostro grande problema: il grande numero di adolescenti,
che non avendo prospettive finiscono per essere arruolati dalle bande della criminalità
locale. Serra è considerato uno dei comuni più violenti del Paese. I giovani muoiono
presto, soprattutto per le guerre tra bande rivali e in confronti a fuoco con la polizia
e se non muoiono finiscono nelle carceri...
D. – Una delle scelte dei missionari
comboniani è stata di essere vicini a questi minori e di impegnarsi per il loro recupero...
R.
– In Brasile, nel 1977, la Chiesa cattolica, soprattutto a San Paolo, attraverso il
vescovo ausiliare della città, don Luciano Mendez, istituì la pastorale dei minori,
preoccupandosi soprattutto degli adolescenti che commettevano delitti. Don Luciano
Mendez, in collaborazione con la pastorale familiare e con altri movimenti ecclesiali,
che lavoravano sulla famiglia, decise di creare un programma chiamato “Libertà assistita
comunitaria”. La libertà assistita sarebbe come la nostra libertà vigilata, solo che
invece di essere la polizia o il tribunale dei minorenni a fare il controllo di questi
ragazzi, per vedere se effettivamente stanno o non stanno abbandonando la pratica
della malavita, sono le famiglie ad avere questo compito. Non è propriamente un’adozione,
ma si affiancano ai genitori, alle comunità in cui vivono questi ragazzi per poterli
aiutare attraverso l’appoggio, non tanto economico, quanto umano. E’ una maniera di
superare l’indifferenza, la diffidenza, l’esclusione, l’emarginazione cui sono sottoposti
questi ragazzi. Quindi noi a Serra continuiamo proprio questo lavoro della pastorale
dei minori.
D. – Qual è stata la reazione della società della città di Serra?
R.
– All’inizio è chiaro che ci sia stata una certa diffidenza. Siccome la violenza è
molto forte, molto evidente, soprattutto a causa della cattiva informazione passata
anche da alcuni mezzi di comunicazione, c’è un forte processo di criminalizzazione
sia di questi ragazzi sia di coloro che operano con questi ragazzi. Soprattutto quando
si è cominciato ad impiantare il progetto nel quartiere si è creato tutto un malessere
superato solo attraverso il contatto interpersonale, il dialogo con i vicini, facendo
scoprire che in realtà il centro serve per recuperare. Alla fine dei conti, infatti,
chi paga il prezzo della violenza è la società. Se questi ragazzi restano in carcere
minorile per molto tempo, ne escono peggio di come sono entrati. Pian piano si vede
che la gente comincia a capire, comincia a coinvolgersi.
D. – Lei, in passato,
ha dichiarato che attraverso questo impegno sente in un certo senso la carezza di
Dio su di sé. Quindi, possiamo dire che non solo il missionario fa del bene alle persone,
ma queste stesse persone restituiscono qualcosa?
R. – Sì, perché è un lavoro
molto duro, soprattutto nelle carceri minorili e in quelle per adulti. E, d’altra
parte, si percepisce che i ragazzi non vedono l’ora del nostro arrivo e in alcune
circostanze dimostrano questo affetto. I ragazzi, con tutto il loro passato legato
alla criminalità, autori di delitti anche abbastanza gravi, sono capaci ancora “del
bello e del buono” e questo ci dà una grande speranza. Quando succedono queste cose
è come se Dio in un momento di sconforto, in un momento di delusione, ci consolasse.