Incontro Ccee sui migranti. I cardinali Vegliò e Bozanic: immigrati nel cuore della
Chiesa
Gli immigrati sono protagonisti della missione della Chiesa: lo hanno evidenziato
i cardinali Antonio Mario Vegliò e Josip Bozanic aprendo, martedì pomeriggio a Roma,
l’Incontro dei direttori nazionali della pastorale per i migranti delle Conferenze
episcopali d’Europa. Il servizio di Roberta Gisotti:
“Vogliamo riflettere
sulla relazione tra migrazione ed evangelizzazione”, ha spiegato il cardinale Bozanic,
presidente della sezione migrazione della Commissione "Caritas in Veritate" del Consiglio
delle Conferenze episcopali d’Europa (Ccee). Dunque, cosa comporta per la Chiesa la
crescente imponenza del fenomeno migratorio? Anzitutto, ha detto il porporato, “la
Chiesa deve essere luogo di accoglienza ovunque arrivano o passano delle persone e
offrire a tutti la possibilità di incontrarsi con Gesù”, e anche ricercare “chi è
appena arrivato”, spesso “solo e senza speranza”. “Non possiamo separare – ha sottolineato
il cardinale Bozanic – l’assistenza sociale, la carità, la promozione della giustizia
e l’annuncio di Cristo”. Così pure gli immigrati credenti “sono protagonisti della
missione della Chiesa” e non possono limitarsi a dare al Paese che li ospita “solo
la forza del proprio lavoro o la capacità intellettuale degli studio”, ma sono chiamati
“a testimoniare la fede con gioia e senza paura”: sul posto del lavoro, nel quartiere,
negli ambienti che frequentano, come “segno visibile” di luce della fede per la comunità
locale. “Una fede nascosta finisce per spegnersi”, ha ammonito il porporato, auspicando
che “le leggi e la cultura in Europa e nel mondo non siamo d’ostacolo ai credenti”.
“Le persone in movimento” - ha aggiunto il cardinale Vegliò, presidente del
Pontificio Consiglio della pastorale dei migranti – sono “una forza di trasformazione”
avendo “il potere di cambiare le dimensioni demografiche, economiche e sociali dell’intero
pianeta”. Per questo, la Chiesa deve contribuire “alla discussione pubblica su migrazione
e sicurezza delle frontiere”, perché la comunità internazionale possa concordare un
quadro normativo rispettoso della giustizia e della solidarietà, soprattutto, della
dignità di ogni persona”, “a prescindere dal suo status giuridico, nella legalità
o nella irregolarità.
Sui temi dell'Incontro, Adriana Masotti ha intervistato
padre Luis Okulik, segretario della Commissione sulle questioni sociali “Caritas
in Veritate” del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (Ccee), che promuove
l’incontro:
R. – E’ fuori
di dubbio che la Chiesa cattolica sia sempre stata in prima linea nell’accoglienza
dei migranti nelle diverse parti del mondo, ma in modo particolare in Europa, in questi
ultimi anni in cui la crisi provoca migrazioni motivate da ragioni economiche. La
Chiesa cattolica sicuramente ha da offrire non solo un grande sostegno, in concreto,
ma soprattutto può aiutare una riflessione molto seria sulle cause, sulle modalità,
sul modo di inserimento di queste popolazioni, in contesti che sono nuovi e che tante
volte richiedono un grande accompagnamento.
D. – Ma per la Chiesa, chi è il
migrante?
R. – E’ un fratello che arriva e che deve essere aiutato e accompagnato
nella sua esistenza. Ci sono certamente delle difficoltà alle volte, soprattutto motivate
da ragioni culturali e religiose - non possiamo dimenticare l’aumento delle migrazioni
da Paesi di maggioranza musulmana - ma la Chiesa ha dimostrato sempre un grande equilibrio
in questo senso, prestando un aiuto che non è definito in base al rapporto etnico
o al rapporto religioso, ma partendo da una comune convinzione che chi è in necessità
deve sempre essere aiutato. Se uno lo fa, lo fa proprio perché cattolico, perché convinto
che questo sia il modo migliore di condividere l’esperienza che uno fa alla luce del
Vangelo.
D. – Com’è stato pensato il Convegno di questi giorni a Roma? Con
quali obiettivi?
R. – L’obiettivo principale è stato quello di riflettere seguendo
le tracce del Messaggio del Santo Padre per la Giornata delle migrazioni dell’anno
scorso, che metteva in stretto rapporto la preoccupazione per la nuova evangelizzazione
con l’impegno in una pastorale rinnovata, in una pastorale di comunione. Da qui, è
partita la riflessione che vorrebbe che in questi giorni i diversi responsabili delle
migrazioni presso le singole Conferenze episcopali europee, possano far presente le
prospettive di lavoro che hanno in questo momento, condividerle, e per quanto riguarda
soprattutto il Ccee, poter coordinare meglio questo lavoro, offrendo magari un certo
sostegno alla riflessione delle singole Conferenze episcopali.
D. – Alla luce
di quello che già esiste in ambito europeo, ci si vuole dunque confrontare e poi guardare
anche al futuro?
R. – Certamente. Si parte dall’esperienza che si fa. Il lavoro
sulle migrazioni per la Chiesa cattolica è sempre stato molto organizzato, molto ben
gestito e accompagnato. Quindi, si parte dalla base di qualcosa che ormai è collaudata
nella pastorale della Chiesa cattolica. Da questo punto di partenza, si vorrebbe guardare
alle difficoltà e alle sfide. Nell’incontro dei diversi direttori nazionali delle
migrazioni, il confronto costruttivo punta a verificare le modalità con cui si possa
promuovere un certo modo di collaborazione regionale o di Conferenza episcopale, perché
possa essere di aiuto e sostegno al lavoro che già si sta facendo.
Ad intervenire,
ieri dopo l'intervento di mons. Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio
per la promozione della Nuova Evangelizzazione, padre Fabio Baggio, direttore
del SIMI, Scalabrini International Migration Institute. Adriana Masotti gli
ha chiesto che cosa s’intende per pastorale di comunione:
R. - Pastorale
di comunione, innanzitutto, è un termine che ormai è entrato nel nostro linguaggio
quotidiano, soprattutto a livello di teologia pastorale: nelle riflessioni di tante
persone, in tanti Paesi, in particolare anche nella nostra Europa cattolica, dove
molte Chiese locali si interrogano sui fenomeni che riguardano la comunione. Una comunione
che è all’interno della Chiesa e che viene, in molte occasioni, anche sfidata da situazioni
concrete di divisioni o da situazioni semplicemente di nuovi arrivati che bussano
alla porta. Tra questi, ovviamente, ci sono anche i migranti.
D. – Comunione
intesa come fraternità, come unità…
R. - Esattamente. Una fraternità che è
molto di più di quella che la rivoluzione francese voleva proporci; una fraternità
che ci viene come monito e richiamo “Ut Unum Sint” – “affinché siano uno” - direttamente
dal nostro fondatore: Cristo che ci richiama, appunto, a vivere come una sola cosa,
una sola persona e mette come modello “come Io ed il Padre siamo uno”. In questa unità
fondamentale, che rispetta la diversità, ma che vive una profonda comunione - anzi,
si riscopre realizzata nella comunione della diversità - troviamo il modello a cui
ispirarci come cristiani e vivere anche le nostre relazioni inter ecclesiali.
D.
- In che modo, allora, si declina questa pastorale di comunione nell’ambito del fenomeno
migratorio?
R. - Se noi puntiamo ad un discorso di comunione nella diversità,
riconoscendo che il nostro modello è un modello trinitario, una comunione nella diversità
proprio per definizione - tre persone ed una sola natura, in cui nessuna delle tre
persone mai si perde, ma vive riaffermata nell’amore e nella propria diversità – questo
ci spinge a vivere l’incontro con l’altro e con il diverso come una realizzazione
di questa comunione. Nell’altro, troviamo l’altro con la “A” maiuscola, cioè Dio
presente nel fratello e nella sorella diversi, migranti che bussano alla nostra porta.
D. - Ci sono già alcune linee, alcuni orientamenti concreti con cui, appunto,
realizzare questa visione…
R. - In questo momento siamo alla ricerca di una
riflessione teologica che ci guidi e ci porti poi a dare dei contenuti a quelle azioni
che, da sempre, la Chiesa ha intravisto come azioni di comunione: la ricerca dell’altro,
la ricerca del diverso, la ricerca di Dio presente nell’altro, l’accoglienza. Un’accoglienza
che va oltre i confini, che si realizza non solamente con quelli che direttamente
bussano alla porta, ma con le loro famiglie, con le loro comunità che rimangono in
patria. Una fraternità che si trasforma poi in solidarietà, ben conoscendo le ragioni
per le quali queste persone si muovono: siano essi rifugiati, profughi, migranti per
ragioni economiche. Questa solidarietà che si spinge oltre le frontiere e diventa
transnazionale, in questo senso, e che diventa un bellissimo gesto di comunione inter
ecclesiale, oltre le frontiere; alla ricerca proprio di questa collaborazione, per
la crescita del Regno di Dio in tutto il mondo.
D. - Ieri, nel suo intervento
all’incontro, il card. Vegliò ha raccomandato un approccio realistico al fenomeno
migratorio…
R. - Sono perfettamente d’accordo con il cardinale. Penso che abbia
indovinato una delle piste più importanti per la riflessione: riguarda proprio un’apertura
che deve essere sempre conscia di quello che si offre e non deve mai promettere più
di quello che può offrire. Un’accoglienza sempre generosa, sempre molto più in là
di quelli che possono essere i calcoli economicistici di quello che io posso offrire.
Però, anche nella generosità c’è una responsabilità fondamentale, che ci fa vivere
in un mondo reale che è ancora marcato - e non lo possiamo trasformare in questo momento
- dalle frontiere degli Stati-nazione, ma che al tempo stesso, sulla base del messaggio
cristiano, deve essere sempre promotore di un’accoglienza responsabile, che sa quello
che può regalare, quello che può donare e offrire agli altri e che ricerca sempre
il bene altrui. Ad esempio, a livello di parrocchia e di diocesi, io punterei innanzitutto
su un discorso di con-cittadinanza, partendo proprio da un periodo di presenza sul
territorio, una cittadinanza che è fatta di diritti e di doveri. Per cui, chiunque
passa per questo territorio, chiunque risiede per un tempo in questo territorio, diventa
cittadino di diritto di questa parrocchia, cioè la comunità si struttura proprio come
una comunità accogliente, nei confronti di chi arriva. A quel punto, ovviamente, non
basta rimanere chiusi nelle sagrestie, bisogna andare incontro a chi, molte volte,
non parla la lingua e invitare a partecipare, offrire gli spazi adeguati, che possano
al tempo stesso salvare e far crescere le diversità, nella costruzione di questa comunione
di cui parlavamo.