2012-11-28 08:00:19

Domani all’Onu la richiesta della Palestina di aderire come stato non membro


Mentre cresce la tensione per le vicende politiche interne egiziane, Al Cairo l’avvio di negoziati indiretti tra Israele ed Hamas in merito al blocco della Striscia di Gaza. Intanto cresce il fronte dei Paesi che diranno sì alla Palestina come stato non membro all’Assemblea Generale dell’Onu. Attesa per gli esiti degli esami sulla salma di Arafat. Benedetta Capelli: RealAudioMP3

Abu Mazen è a New York, domani mattina chiederà ufficialmente all’Assemblea Generale dell’Onu di votare sì alla richiesta di adesione come Stato non membro. Sarebbero 15, secondo fonti diplomatiche, i Paesi che daranno il loro appoggio. Divisa l’Europa: via libera della Francia, che si è attirata le critiche degli Stati Uniti, sì anche da Spagna, Malta, Cipro e Portogallo, Germania propensa per il no mentre la Gran Bretagna ha posto tre condizioni: nessuna richiesta di entrare nella Corte Penale né in quella Internazionale di giustizia; ripresa immediata dei negoziati con Israele e nessuna apertura del Consiglio di Sicurezza. Si starebbe lavorando perché Abu Mazen, che ieri ha incassato il sostegno di Hamas, prometta di non adire alla Corte penale internazionale contro Israele per gli insediamenti in Cisgiordania, considerati dall’Anp “un ostacolo alla pace”. Nella conta dei no, scontato quello dello Stato ebraico e degli Stati Uniti per i quali sarebbe un errore che impedirà di lavorare per la futura nazione palestinese. A Ramallah intanto una squadra di esperti sta analizzando i campioni di tessuto prelevati dai resti di Arafat. A 8 anni dalla sua morte si vuole stabilire se il leader dell’Olp sia stato ucciso dal polonio, come ipotizza la vedova che ha dato credito ad un’inchiesta giornalistica di Al Jazeera.

Dunque da Hamas giungono segnali di un cambiamento sia nei rapporti con l’Iran sia nei confronti del leader Anp, Abu Mazen, a partire dall’appoggio al presidente nella richiesta all’Onu. Gabriella Ceraso ne ha parlato con Paola Carìdi, analista e autrice del libro "Hamas" edito dalla Feltrinelli: RealAudioMP3

R. – L’appoggio è arrivato da Khaled Meshaal, che è ancora il numero due dell’ufficio politico di Hamas, e non è ancora arrivato da un’ala molto forte del movimento islamista palestinese e cioè quella di Gaza. E’ comunque un appoggio importante, perché sostiene Abu Mazen in una fase di estrema debolezza dell’Autorità nazionale palestinese e soprattutto del suo presidente, messi in un angolo nelle trattative per la tregua di Gaza, che si sono comunque svolte tra Israele e Hamas.

D. – Può essere un segno di riconciliazione?

R. – Tra Fatah e Hamas è una lunga storia di alti e bassi, di accordi firmati, riconciliazioni quasi fatte che poi si rompono. Né Fatah né Hamas hanno ancora fatto pace con la possibilità di ricominciare a far politica oltre Arafat condividendo il potere. Quello che può succedere è che la pressione regionale più che internazionale sia talmente forte da costringere Hamas e Fatah a riconciliarsi sul serio e non solamente a firmare accordi.

D. – Qualora Abu Mazen ce la faccia all’Onu, nella sua proposta ha garantito che avrebbe riallacciato i rapporti con Fatah. Potrebbe essere questo uno spunto adatto?

R. – Può essere un buon incentivo, ma bisogna pensare non tanto a una riconciliazione tra Fatah e Hamas, ma pensare a una riconciliazione della Palestina, che è una cosa ben diversa. Della riconciliazione fa parte anche la libertà di movimento fra Gaza e Cisgiordania, che sarebbero altrimenti due entità completamente separate l’una dall’altra.

D. – Nello stesso tempo, però, si segnala la dichiarazione sia del leader politico Meshaal di visitare la Striscia per la prima volta il prossimo 5 dicembre, in occasione del 25.mo dalla fondazione di Hamas, sia dall’altra l’invito che per la prima volta è arrivato all’Iran, proprio da parte di Hamas, a cambiare l’atteggiamento nei confronti della Siria. Come spiegarlo?

R. – Io credo che Meshaal continui a seguire una linea, quella di presentarsi come un leader palestinese e non come un numero uno di Hamas. Questo significa un salto di qualità. Segnala anche, però, che una parte di Hamas – la parte maggioritaria – tenta di farsi sdoganare attraverso una posizione, se si vuole, più pragmatica e moderata di quanto lo sia stata prima del 2005, attraverso cioè un’alleanza con i Paesi della regione dove l’islam politico ha vinto o che sono già rappresentativi dell’islam politico. Vuol far comprendere che di questo nuovo scenario fa parte integrante. Non è un caso che il numero due di Hamas, Abu Marzouk, abbia fatto un passo ulteriore dicendo all’Iran di non appoggiare più la Siria di Bashar al-Assad.

D. – Addirittura, ha detto che la posizione iraniana nel mondo arabo non è più popolare...

R. – Certo, perché Hamas ha preso una decisione ben precisa. Hamas è un movimento estremamente pragmatico. Quando sono cominciate le rivoluzioni arabe ed è cominciata la sollevazione in Siria, Hamas si è trovato in una posizione di estremo disagio politico. Quelli dell’ufficio politico sono stati in bilico per mesi, salvo poi decidere di abbandonare Damasco. Con una decisione appunto estremamente pragmatica, se ne sono andati segnalando in questo modo che avevano scelto la rivoluzione e avevano rotto un’alleanza decennale, ma che era un’alleanza tattica, come è sempre stato tra Hamas ed i Paesi che l’hanno sostenuto. Ha deciso quindi di rompere quest’alleanza. A questo punto dice all’Iran: “Guardate, per noi la linea vincente è quella alla quale apparteniamo, è quella dell’islam politico, che vince nelle rivoluzioni, dunque non appoggiate più neanche voi Bashar al Assad se volete fare parte di questo nuovo scenario regionale”.











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