“Medici Senza Frontiere” si racconta in una raccolta di lettere e testimonianze
“Noi non restiamo a guardare”: è il titolo di un volume che racconta la vita e l’impegno
di “Medici Senza Frontiere” nel mondo. Il libro, edito da Feltrinelli, verrà presentato
ieri sera a Milano ed è articolato in una quarantina di lettere scritte dagli operatori
umanitari a parenti e amici. Parte del ricavato della vendita andrà a sostegno dei
progetti dell’organizzazione medico-umanitaria. Alessandro Gisotti ha raccolto
la testimonianza di Enrica Picco, operatrice di “Medici Senza Frontiere” e
tra gli autori del volume:
R. – Il progetto
è quello di dare voce a tutti gli operatori umanitari di “Medici Senza Frontiere”
che ogni giorno, a migliaia, lavorano sul terreno, in posti spesso lontani, remoti,
da cui è difficile far uscire testimonianze. Il mezzo che si è scelto è la lettera
scritta - dall’Africa, dall’Asia, dal Sud America, dai vari progetti di “Medici Senza
Frontiere” - ad amici o parenti che sono rimasti a casa, per cercare di condividere
con loro momenti positivi o momenti negativi, momenti difficili, che viviamo un po’
tutti i giorni nei vari luoghi e che certe volte è difficile, appunto, condividere.
Con queste lettere abbiamo cercato di andare oltre a questo distacco.
D. -
Nel libro c’è anche una sua lettera. Che cosa racconta in particolare?
R. -
Io racconto la mia esperienza in Repubblica Centrafricana dove ho lavorato quasi due
anni. E’ un Paese di cui si parla davvero raramente. La situazione sanitaria lì è
veramente disastrosa. Io racconto di un bambino che si ammala di malaria, che è la
prima causa di morte nel Paese e che è una malattia assolutamente curabile se diagnosticata
e trattata in tempo. Ma il problema è che il sistema sanitario del Paese praticamente
non esiste. In più, l’accesso ai pochi centri sanitari esistenti è reso ancora più
difficile dal conflitto latente in quasi tutto il Paese perché lo Stato non ha praticamente
il controllo del territorio. Le difficoltà sono enormi. Una mamma deve lasciare i
suoi bambini a casa, deve accompagnare il suo unico figlio malato e camminare per
20 o 30 km, per arrivare in un centro dove non ci sono medicine o dove non c’è personale
sanitario e quando arrivano, per la maggior parte dei casi, è troppo tardi.
D.
– Cosa spera che questo libro darà a chi lo leggerà?
R. – Speriamo di avvicinare
le persone a parti del mondo, a contesti, che sono lontanissimi dalla nostra realtà
quotidiana. Speriamo di trasmettere l’emozione che proviamo ogni giorno e quindi di
rendere questi contesti così lontani così diversi anche un po’ più vicini e comprensibili.