Why Poverty? Crisi e povertà. Il parere dell'economista Riccardo Moro
La povertà assume forme diverse, a seconda dei luoghi e delle persone che coinvolge.
La crisi ne ha acuito le conseguenze, coinvolgendo anche aree – vedi l’Europa o gli
Stati Uniti – che prima ne erano esenti. Ma come si può definire la povertà oggi?
E' una delle domande che fanno da sfondo alla Campagna promossa dall'Unione Europea
di Radiodiffusione (UER) intitolata “Why Poverty?” Salvatore Sabatino lo ha
chiesto a Riccardo Moro, docente di Politiche dello Sviluppo presso l’Università
degli Studi di Milano:
R. - La prima
risposta potrebbe essere la mancanza di denaro e di risorse finanziarie. In realtà,
la povertà è qualcosa di multidimensionale, più ampia, perché non basta il denaro
se non siamo in grado di comprare, di pagare, le cose che non sono disponibili nel
luogo in cui viviamo. La povertà, oggi, nel mondo è tutta quella parte di popolazione
che non ha accesso all’acqua, non ha accesso alla scuola, non ha accesso alla salute.
D.
– La povertà viene spesso anche confusa con la miseria, eppure non sono la stessa
cosa. Forse la povertà intesa come essenzialità potrebbe aprire ad una migliore analisi
della realtà globale...
R. - Per certi aspetti, sì. Non è una distinzione che
viene fatta normalmente nel dibattito politico internazionale. Però, noi possiamo
immaginare due dimensioni diverse: da un lato, la condizione di privazione che viola
la dignità della vita umana e la rende estremamente vulnerabile e questa la potremmo
chiamare miseria; dall’altro lato, una condizione di sobrietà, di essenzialità, in
cui le cose fondamentali sono disponibili e la potremmo chiamare povertà. Questa condizione
spesso aiuta anche a riconoscere le priorità positive. Le comunità ricche, nel Nord
del mondo, hanno certamente perso questa dimensione di sobrietà e a volte si inducono
bisogni non necessari, anche attraverso la pubblicità, per sostenere un sistema produttivo,
che è certamente ricco, ma che a volte non è sostenibile nemmeno a livello ambientale.
D.
– Sradicare la povertà estrema e la fame entro il 2015 era uno degli obiettivi del
millennio fissati dalle Nazioni Unite nel 2000. Obiettivo che purtroppo non verrà
centrato. Di chi è la responsabilità?
R. – Non verrà centrato, però io non
sarei così negativo. Prima di tutto, non era un obiettivo unico, erano otto grandi
obiettivi che poi avevano una serie di sotto obiettivi di target abbastanza articolati.
Alcuni di questi, in realtà, sono stati raggiunti sia a livello globale, sia a livello
di singoli Paesi. Certamente, siamo lontani da una riuscita completa. Però, io credo
che questo risultato si debba vedere anche in termini ottimistici. Vale a dire, è
la prima volta che la comunità internazionale, in modo coeso, ha lavorato su un obiettivo
comune di lotta alla povertà, di cambiamento davvero positivo del pianeta. Perché
non è successo è difficile dirlo, in parte anche per egoismi. Noi abbiamo alcune nazioni
che tengono posizioni molto felici quando devono discutere la scelta di questi obiettivi
ma mantengono posizioni estremamente egoiste in sede di organizzazione mondiale del
commercio, ad esempio, impedendo al commercio di finanziare la lotta alla povertà,
che è uno degli strumenti più importanti.
D. - Per combattere la povertà esiste
anche una dimensione educativa che andrebbe sviluppata maggiormente. Attraverso l’educazione,
è bene ricordarlo, si possono modificare tante situazioni…
R. – Io dico sempre
che esistono due emergenze, o due mandati, che poi in qualche modo sono permanenti:
uno all’educazione, uno alla partecipazione. Le cose cambiano nella misura in cui
noi diffondiamo una consapevolezza sulla necessità di farle cambiare e sulle ragioni
per farle cambiare. Dopodiché cambiano nella misura in cui facciamo concretamente
qualcosa. Allora, un’azione educativa che racconti gli squilibri del mondo e che spieghi
le ragioni per un’azione comune, per vincerli, per superarli, è assolutamente essenziale
e non va disgiunta da un’azione di testimonianza concreta, di partecipazione vera
e propria attraverso comportamenti come il consumo critico, attraverso il dialogo
con la politica, o addirittura dentro la politica, dove si assumono le decisioni che
poi incidono in modo fondamentale su questi fenomeni.
D. – Nel frattempo è
intervenuta anche una crisi economica che ha acuito la povertà anche in aree prima
più prospere. Pensiamo solo, per esempio, all’Europa o agli Stati Uniti. Che peso
ha la crisi realmente sulla diffusione della povertà?
R. – La crisi ha determinato
fatti nuovi nel nord del mondo, però soprattutto fuori dall’Europa. In Europa, infatti,
il sistema sociale, il sistema di welfare, ha tenuto e noi siamo riusciti a gestire
queste difficoltà; in altre aree del pianeta, ad esempi, negli Stati Uniti, abbiamo
una ripresa economica un po’ migliore ma molta più fatica sul piano sociale. Ci sono
diverse fasce, viceversa, del pianeta, i cosiddetti “Paesi emergenti”, in cui la crisi
non ha picchiato così tanto e stanno migliorando le dinamiche economiche, che in quei
luoghi sono piuttosto vivaci. E’ certamente vero che i Paesi che dipendevano e che
dipendono anche dalle esportazioni verso di noi, in termini di materie prime e altri
prodotti, fanno un po’ più fatica perché la recessione nel nord del mondo comporta
minori acquisti. Siamo in un mondo sostanzialmente globalizzato e interdipendente:
quello che avviene in qualunque parte del pianeta ha ricadute dappertutto. Per cui,
la crisi conta effettivamente, anche se in un modo non così completamente trasmesso,
però in questo momento influisce anche sulle condizioni del sud.
D. - Lei diceva
che abbiamo assistito alla crescita importante di Paesi in via di sviluppo; ovviamente
parliamo della Cina, per esempio, dell’India, del Brasile. Non sempre, però, la crescita
di questi Paesi equivale ad un miglioramento della vita di un’intera popolazione.
Sembrerebbe un paradosso eppure è così?
R. - E’ decisamente così e questo,
tra l’altro, ci invita anche a declinare alcune categorie che vengono usate anche
nel linguaggio sia dei media sia della politica, tutti i giorni, con una consapevolezza
e un’articolazione un po’ maggiore. Ad esempio, tutti continuiamo a dire che è necessaria
la crescita, però la crescita vuol dire solo l’aumento del prodotto interno lordo,
cioè l’aumento, ad esempio, del valore della somma del fatturato di tutte le imprese
in un Paese. Questo non significa affatto un aumento dei redditi di tutti i cittadini.
Possiamo aver alcuni settori, alcuni soggetti, che crescono molto e determinano una
crescita complessiva di quel Paese e molti settori che rimangono indietro. La sfida
di questi Paesi è esattamente questa. Questi Paesi sono quelli che hanno la maggiore
disparità tra le fasce sociali che sono coinvolte da questa dinamica economica molto
consistente e che sono diventate ricche, in qualche modo - anche rispetto a parametri
occidentali - e la fascia più povera della popolazione, che è normalmente anche quella
maggioritaria e che continua a vivere condizioni molto pesanti.
D. - Su una
cosa non ci sono dubbi: i consessi internazionali come il G8 non rappresentano più
la realtà economica mondiale e non a caso ha assunto sempre più importanza il G20.
Ma i Paesi più poveri, comunque, non vengono mai consultati e coinvolti. Questa è
un’altra criticità che andrebbe affrontata in maniera seria, non crede?
R.
- Assolutamente, sì. Su questo io sono molto partigiano. Il G8, di fatto, oggi non
conta più, viene riunito in modo quasi simbolico e nulla più. E’ chiaro che il G20
è diventato un luogo importante. E’ chiaro che intorno al G20 abbiamo gli attori più
consistenti, anche dal punto di vista economico, dal punto di vista del potere. Ma
il fatto che lì dentro ci sia quasi l’80 per cento del Pil mondiale, non significa
che ci sia l’80 per cento delle persone. Fino a prova contraria, democrazia vuol dire
l’esercizio di partecipazione di tutti, non solo di qualcuno che ha più diritti economici
degli altri. E’ difficile un esercizio di governo mondiale. Vedo un ruolo che può
essere molto importante giocato dalle aggregazioni regionali. Oggi abbiamo un’Unione
Africana che è più consistente e autorevole del passato. Abbiamo reti come Unasur
e altri in America Latina. Abbiamo analoghe reti nella zona asiatica, nel pacifico…
Insomma, forse, una sorta di “governance globale” può essere esercitata non solo da
soggetti come il G20 o dalle istituzioni multilaterali - che pure hanno la fatica
della costruzione del consenso proprio interno - ma anche dal dialogo tra queste piattaforme
continentali. E’ una sfida che non può essere elusa, ignorata: far partecipare tutti
- anche gli ultimi, anche quelli che fanno più fatica e che hanno meno strumenti per
la stessa partecipazione - a questo esercizio di scelta del nostro futuro e definizione
delle regole e degli strumenti che vogliamo darci per raggiungere gli obiettivi che
ci diamo.