Esplosione in un bus a Tel Aviv, numerosi feriti. Nuovi raid israeliani. Tregua più
lontana
Non cessa il conflitto israelo-palestinese. L’esplosione avvenuta su un autobus di
Tel Aviv ha provocato oltre 15 feriti, alcuni gravi. Vittime anche tra i palestinesi
per i raid israeliani su Gaza nelal giornata di oggi. Un’escalation che allontana
la tregua. Ce ne parla Benedetta Capelli:
Giornata segnata dalla violenza
sia nella Striscia di Gaza che in Israele. Nel cuore di Tel Aviv, un’esplosione avvenuta
su un autobus ha provocato oltre 15 feriti. Un attacco terroristico, secondo la polizia
israeliana, che ha arrestato un sospetto. Poco dopo, le Brigate Al-Aqsa, ala militare
della Jiahad islamica, hanno rivendicato l'azione, mentre Hamas si è felicitata per
l’attentato, conseguenza - afferma - dei raid israeliani che ancora oggi hanno causato
nuove vittime tra i palestinesi a Gaza. Violenze che sembrano allontanare sempre più
la tregua, già saltata ieri, e che arrivano in un momento delicato con la diplomazia
internazionale al lavoro. Stamani a Ramallah, il presidente Abu Mazen ha incontrato
il segretario di Stato americano Clinton – da poco giunta in Egitto - che ha chiesto
di posticipare la data, fissata per il 29 novembre, del riconoscimento della Palestina
come Stato non membro dell’Assemblea Generale dell’Onu. Richiesta bocciata dal capo
negoziatore dell'Olp Erekat. Poco prima, Abu Mazen aveva visto il segretario generale
dell’Onu Ban Ki-moon che aveva lanciato un appello per la fine immediata dei raid
israeliani e del lancio di razzi palestinesi. L’ultimo bilancio delle violenze parla
di 139 morti, 4 le vittime israeliane. Infine l’Iran ha ammesso di aver appoggiato
militarmente Gaza, invitando gli altri Paesi arabi a fare altrettanto.
La diplomazia,
dunque, è al lavoro: importante il ruolo del governo egiziano, espressione dei movimenti
che hanno infiammato la primavera araba. Una situazione molto diversa rispetto al
passato come sottolinea al microfono di Benedetta Capelli, il prof. Massimiliano
Cricco, docente di Storia dell'Europa orientale all'Università degli Studi di
Urbino "Carlo Bo" ed esperto di Medio Oriente:
R. - La situazione
- come sempre - è molto complessa. Oggi vediamo che il panorama politico internazionale
è cambiato molto rispetto - ad esempio - al periodo dell’Operazione Piombo fuso
del 2009: ci sono i nuovi governi arabi emersi dalle rivoluzioni della cosiddetta
Primavera araba. In più vediamo i Paesi africani come l’Egitto o il nuovo governo
libico - naturalmente si tratta sempre di Paesi del Golfo dove l’Islam sunnita è prevalente
– che stanno giocando un ruolo molto più importante rispetto a prima. Da un lato i
nuovi regimi arabi come quello di Morsi, hanno un forte bisogno di aiuti internazionali
così come hanno bisogno di accreditarsi sulla scena politica mondiale proprio con
un volto moderato e equilibrato. Ma, è chiaro, che proprio per la loro stessa natura
di partiti, movimenti, gruppi islamici, non possono dialogare partendo da quelle che
sono le volontà di Israele. Di sicuro, trovare un mediatore in Morsi, potrebbe essere
un elemento molto positivo perché da un lato Morsi gode del favore degli americani
e soprattutto del rieletto presidente Obama; dall’altro può costituire un valido
interlocutore con la fazione più moderata di Hamas con cui, per forza di cose, si
dovrà venire a patti nei prossimi anni perché i votanti palestinesi, soprattutto a
Gaza, sono pro-Hamas piuttosto che pro-Abu Mazen e quindi della vecchia dirigenza
dell’Anp.
D. - Questo nuovo fronte che si è creato può dare linfa nuova al
negoziato di pace tra israeliani e palestinesi?
R. - Si spera. Si spera perché
da queste rivoluzioni arabe sono nati dei governi islamici "moderati", e quindi si
spera che possano - in un certo senso - valorizzare quello che è il discorso del negoziato
rispetto all’intransigenza dell’integralismo islamico. La novità è che rispetto alle
posizioni precedenti, soprattutto degli americani che cercavano come interlocutore
piuttosto Abu Mazen e la vecchia Anp, oggi Hamas e l'Olp giocheranno un ruolo sempre
più importante perché le nuove dirigenze dei Paesi arabi - sottolineo i sunniti, perché
in questo momento l’Iran appare molto isolato nel panorama stesso delle dirigenze
islamiche - stanno cercando di portare avanti un discorso di avvicinamento ad Hamas,
e quindi in un certo senso, gli Stati Uniti dovranno perseguire questa politica nella
misura in cui naturalmente Hamas è disposta a dialogare senza utilizzare mezzi bellici.