Oltre 100 vittime in Medio Oriente. Febbrile il lavoro della diplomazia internazionale
Ha superato la soglia dei 100 morti il bilancio degli scontri tra esercito e miliziani
palestinesi di Hamas nella Striscia di Gaza. Numeri drammatici di una situazione che
sta mobilitando tutta la diplomazia internazionale. Onu, Unione Europea hanno praticamente
dedicato la giornata di ieri a trovare uno sblocco alla situazione, che rimane purtroppo
difficilissima. il servizio di Graziano Motta:
I missili
palestinesi continuano a cadere sul territorio israeliano, in particolare nella zona
costiera, e incessanti sono pure i raid israeliani su Gaza, su obiettivi militari,
che però hanno fatto tante vittime civili. E’ emblematico l’attacco al grattacielo
del centro stampa dove sono stati uccisi due miliziani della jihad ma pure due giornalisti.
Su questo scenario si è palesata la guerra propagandistica fra le parti ma si è pure
intensificata l’azione diplomatica. I riflettori sono puntati innanzitutto sul Cairo.
Il presidente egiziano Morsi ha parlato al telefono con il presidente americano Obama
e ricevuto il segretario generale dell’Onu che oggi va a Gerusalemme e a Ramallah
per incontrarvi rispettivamente il premier israeliano Netanyahu e il presidente palestinese
Abu Mazen. Seguite pure con grande interesse le riunioni a New York del Consiglio
di Sicurezza dove la proposta di una risoluzione del Marocco è stata respinta dagli
Stati Uniti, polemici peraltro con la Russia, ma dove si stanno elaborando i termini
di un accordo per una tregua, che Israele - dove nella notte si è riunito il governo
– accetterebbe, a condizione che sia di lunga durata e garantita per conto di Hamas
dall’Egitto.
Ma quale può essere la via di uscita da una crisi che rischia
di deflagrare e fare da miccia per l’intero Medio Oriente? Salvatore Sabatino
lo ha chiesto a Ennio Di Nolfo, docente emerito di Relazioni Internazionali
all’Università di Firenze:
R. - Mi pare
che l’unica via di uscita attuale sia o il successo della mediazione turca ed egiziana
o il successo - se così si può dire - di un’azione militare limitata di Israele nella
Striscia di Gaza. Ovviamente, tra le due, c’è una differenza fondamentale!
D.
- Gli Stati Uniti hanno assunto - anche in questo caso - una posizione un po’ defilata:
la stessa che ha caratterizzato i primi quattro anni di amministrazione Obama. Ora
quali potrebbero essere le mosse della Casa Bianca?
R. - Io credo che la Casa
Bianca abbia due possibilità di azione. La prima è sostenere fino in fondo il governo
turco, che è uno dei principali alleati della Nato; l’altra, non far mancare - a causa
dei sospetti recenti - il proprio appoggio sia all’Egitto, sia ad Israele, ma segnalare
anche ai palestinesi i rischi che un eccesso di intransigenza può provocare.
D.
- Sono in molti a ritenere che dietro l’attacco a Gaza ci sia l’intenzione di muovere,
da parte di Israele, un attacco a Teheran. Ma senza l’appoggio di Washington, questo
ovviamente sarebbe molto difficile…
R. - Credo che nessuno voglia la guerra
nell’area in questo momento: qualsiasi conflitto provocherebbe una catastrofe, nella
quale lo stesso Israele finirebbe per essere travolto da quello che può accadere.
Mi pare, quindi, che Washington debba e possa soltanto intervenire nella maniera orientata
verso la pacificazione.
D. - Lei ha parlato dell’Egitto, un Paese che esce
da una rivoluzione come quella delle “primavere arabe”: ci possiamo attendere qualche
sorpresa, in questo momento? Il presidente Morsi si gioca la sua credibilità e gioca
il ruolo del suo Paese a livello internazionale…
R. - Certo, però a mio parere
esiste un aspetto della situazione che pochi valutano e cioè il fatto che tra Egitto
ed Israele vi sia un elemento di contiguità e di interesse comune, che costringe quindi
i due Paesi non a combattersi, ma a mettersi d’accordo. Questo elemento è rappresentato
dalla situazione della Penisola del Sinai che, dal punto di vista della sovranità,
è egiziana, ma che di fatto è percorsa da gruppi islamisti, estremisti, qaedisti e
quindi sfugge al controllo del governo egiziano. E’ interesse di entrambi ricondurre
questa regione sotto un controllo stabile.
D. - Per quanto riguarda, invece,
la Turchia che gioca un ruolo importantissimo in questa crisi, forse bisognerebbe
riflettere sul fatto che si lascia il destino del Medio Oriente in mano ad un Paese
che arabo non è...
R. - Questa cosa è molto importante! In realtà la Turchia
è un Paese cerniera, ma non dobbiamo dimenticare che è anche il Paese che contende
all’Italia il dominio del Mediterraneo. La Turchia è legata all’Alleanza Atlantica
dal 1952, ma in realtà dal ’47 con la Dottrina Truman, e ha un vincolo che non può
essere tagliato, perché tagliarlo significherebbe distruggere le possibilità di manovra
che ha la Turchia sia verso il continente europeo, sia verso il Medio Oriente.
D.
- A proposito dell’Europa, non crede che questa sia l’occasione per far sentire il
suo peso diplomatico e strategico? Dopotutto il Medio Oriente è, per il vecchio continente,
davvero dietro l’angolo…
R. - Lo sarebbe se l’Europa avesse una politica estera,
ma purtroppo la politica estera europea è divisa tra gli orientamenti non convergenti
dei vari Paesi e tra la volontà di primato di qualche Paese sugli altri.
A
preoccupare anche la situazione umanitaria. La Mezzaluna Rossa ha chiesto l’apertura
di un corridoio umanitario per portare aiuti e medicine alla popolazione civile di
Gaza. Continui i black out elettrici che impediscono le operazioni chirurgiche. A
denunciare la grave emergenza sanitaria anche Caritas Gerusalemme. Benedetta Capelli
ha intervistato la direttrice, Claudette Habesch:
R. – The situation
in Gaza has become very difficult. … La situazione a Gaza è diventata molto difficile.
Si continuano ad uccidere esseri umani, e questo senza motivo! C’è un’altra soluzione,
c’è un’altra via: non la guerra a Gaza!
D. – Qual è l’impegno di Caritas Gerusalemme
in questa zona ormai segnata dal conflitto?
R. – Caritas is very busy now,
contacting the hospitals. … La Caritas, in questo momento, è impegnata a mantenere
il contatto con gli ospedali. Abbiamo un centro medico a Gaza, una clinica mobile
in grado di raggiungere sei zone diverse di Gaza. Gli ospedali, insieme al nostro
centro medico, hanno lanciato un appello per chiedere medicine, disinfettanti perché
ci sono centinaia di feriti già ricoverati negli ospedali. Le strutture sono stracolme
di feriti, ma noi dobbiamo poter fornire agli ospedali il materiale di cui hanno bisogno.
Abbiamo già comprato gran parte dei medicinali necessari che abbiamo potuto trovare
a Gaza; nel frattempo, la Caritas ha lanciato un appello d’emergenza a tutta la rete
Caritas, affinché si possa continuare a Gaza la nostra importante opera.
D.
– Negli ultimi giorni c’è stata questa grande offensiva e purtroppo tra le vittime
ci sono tanti bambini. C’è un progetto preciso a cui Caritas Gerusalemme sta pensando
per aiutare quei bambini che sono rimasti traumatizzati dai bombardamenti?
R.
– Our children have been traumatized all through, not only today. … I nostri bambini
sono traumatizzati da sempre, non è cosa di oggi. Purtroppo, oggi ancora di più perché
i bombardamenti non fanno differenza tra un bambino, una donna e gli esseri umani
in generale. Sì, i nostri bambini sono traumatizzati ma la Caritas ha già avviato
un programma sociale a Gaza per assisterli; abbiamo intenzione di impegnare ancora
più assistenti. Il problema più grande che abbiamo incontrato in questi ultimi due-tre
anni con i bambini traumatizzati è stato raggiungere quei bambini ai quali sono stati
amputati gli arti. Lavoriamo in stretto contatto con un’organizzazione che produce
le protesi appositamente per loro. La Caritas sostiene questi bambini non solo perché
procura loro le protesi, ma anche perché attraverso i suoi assistenti sociali accompagna
i bambini e le mamme, a loro volta profondamente colpite.
D. – Lei è una cristiana
palestinese. Cosa sente di dire in questo momento di grande difficoltà del suo popolo?
R.
– I am a Palestinian, I am very proud of my identity as Palestinian, and I am … Sono
palestinese. Sono orgogliosa della mia identità palestinese, e sono cristiana in Terra
Santa, sono cristiana della Chiesa madre e sono molto orgogliosa della mia identità
di cristiana. Ma non bisogna dimenticare che noi siamo un popolo unico, e noi cristiani
siamo parte integrante della popolazione palestinese. Quello che colpisce il mio fratello
musulmano, colpisce anche me, che sono cristiana; colpisce l’intera popolazione. Ma
noi come cristiani sappiamo anche di avere un ruolo particolare, quello di testimoniare
il messaggio di Cristo, il messaggio di amore e di perdono. E questa è la ragione
per cui quando rendiamo un servizio, lo rendiamo a tutti i figli di Dio, senza alcuna
discriminazione.