P. Cantalamessa: la "fine del mondo" non è paura di false profezie, ma speranza in
Cristo
La conclusione della storia e il glorioso ritorno di Cristo sulla terra: il Vangelo
letto domenica nelle Chiese di ogni Paese – oggetto di riflessione da parte del Papa
all’Angelus – tocca uno dei punti più sensibili per l’uomo di ogni epoca: quello della
fine della vita e del mondo. Un concetto che evoca paure antiche, oggi spesso alimentate
da condizionamenti mediatici, che però nulla hanno a che fare con la visione cristiana
improntata alla speranza, ribadita domenica da Benedetto XVI. Alessandro De Carolis
ne ha parlato con il predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa:
R. – A me pare
che il Papa abbia proprio centrato il problema – come fa sempre, del resto. Gesù non
vuole rispondere a “quando” avverranno queste cose, ma al “come” bisogna prepararsi.
Come dice il Papa, non vuole fomentare la curiosità sulle date, le scadenze… E’ curioso
che Gesù dica che nel momento preciso in cui ciò avverrà, chiamiamola “fine del mondo”,
neppure gli angeli del cielo lo sapranno, e che invece periodicamente sorgano profeti
o veggenti che annunciano – quando non addirittura con una data precisa – la fine
del mondo. Adesso stiamo andando verso il 21 dicembre 2012, che secondo alcuni sarebbe
la data della fine del mondo perché nei calendari Maya ciò indicherebbe il termine
di un ciclo. Come giustamente afferma il Papa, Gesù vuole dare un fondamento alla
nostra esistenza e, a questo proposito, il Vangelo di ieri è veramente splendido.
Ci dice che, a differenza della visione ateo-scientistica, secondo cui il mondo non
ha un Creatore, non ha un senso, non ha uno scopo e quando saranno esauriti i processi
chimici e fisici in atto finirà o nel gelo eterno o in fuoco cosmico, il messaggio
fondamentale contenuto in questi discorsi escatologici è invece di un’estrema speranza.
Ci dice che noi stiamo andando verso "Uno" che ci viene incontro, che viene ogni giorno
a noi nell’Eucaristia. Quindi, come temere "Uno" che è già nostro compagno di viaggio?
D.
– Di fronte alla parola “apocalisse”, molto spesso si fa confusione, soprattutto perché
il termine è diventato, nel tempo, sinonimo di “catastrofe”. Qual è il suo vero significato?
R.
– Apokálypsis in greco significa semplicemente “rivelazione”, e voleva essere
nel titolo del libro di Giovanni, la rivelazione non di date precise, di scadenze
storiche come spesso è stato fatto, ma un linguaggio profetico che mettesse in luce
i principi fondamentali che sarebbero stati alla base dello sviluppo della storia:
le forze del male che lotteranno sempre contro le forze del bene, ma alla fine il
trionfo sarà dell’Agnello. Questo è il senso fondamentale dell’Apocalisse. Ma a causa
del linguaggio che parla di stelle che cadono, di fuoco che scende sulla terra, si
è finito – come in molti film – con il fare della parola apocalisse sempre delle storie
di calamità, al di sopra dell’immaginazione umana.
D. – Lei prima ha citato
la presunta profezia dei Maya sulla fine del mondo. I millenarismi hanno sempre attraversato
la storia umana. Perché – secondo lei – l’uomo ha questo periodico bisogno di evocare
la fine del mondo?
R. – Quando noi oggi parliamo della fine del mondo, ne parliamo
in termini globali, cioè la fine assoluta dopo la quale c’è solo l’eternità. Gli antichi,
soprattutto nella Bibbia, parlavano con termini relativi e quindi spesso, nella Bibbia,
non si parla di fine del mondo, ma della fine di un mondo. Infatti,
Gesù proprio nel Vangelo diceva: “Non passerà questa generazione prima che tutto ciò
avvenga”: di fatto, non passò la generazione senza che un mondo finisse, quello ebraico-giudaico,
con la distruzione di Gerusalemme. Nel 410, dopo il “Sacco di Roma”, alcuni Padri
della Chiesa pensarono che fosse arrivata la fine del mondo, perché identificavano
il mondo con l’assetto dell’Impero romano che credevano definitivo. Nel Vangelo, spesso
si intrecciano questi due piani: il piano della fine di un mondo con la fine
del mondo. Credo che Gesù volesse fare del primo un simbolo, un richiamo, dell’ultimo:
cioè, prendere queste catastrofi, questi avvenimenti più grandi di noi, come un invito
a non attaccarci a questa terra, così come mi pare sottolineasse anche il Papa ieri.
D.
– Al di là della fine dei tempi, c’è comunque una fine alla quale ogni essere umano
è chiamato a un certo punto della sua vita, che per un cristiano è l’inizio dell’altra
vita. Come si può radicare questo pensiero nella nostra epoca, che è così allergica
a tutto ciò che non riguarda il presente?
R. – E’ stolto affannarsi a voler
scrutare quando sarà la fine del mondo, quando per ciascuno di noi la fine del mondo
può essere stasera, o domani, perché la morte per ciascun individuo è la fine di questo
mondo. Quindi, c’è un richiamo fortissimo che, purtroppo, lo sappiamo bene, non ci
entra facilmente nelle orecchie, a noi uomini, ed è il richiamo che Gesù fa quando
dice: “Vigilate”. Se avessimo davanti un’ora precisa, alla quale ognuno di noi sapesse
di dover morire, inizierebbe un conteggio alla rovescia che sarebbe il parossismo
dell’angoscia. Quindi, ha fatto bene Dio a tener nascosta sia l’ora della nostra fine,
sia quella della fine del mondo.