Mali: governo apre al dialogo con i ribelli. La voce di un missionario
Dialogo "inevitabile" con i ribelli islamici e i tuareg che occupano in armi il nord
del Mali. Così il premier del Paese africano, Modibo, ha definito la necessità del
confronto con le forze musulmane di ansar Dine e quelle del Movimento nazionale di
liberazione dell'Azawad (Mnla), che stanno alimentando un sanguinoso scontro con l'esercito
regolare. Intanto, si è chiusa ieri pomeriggio, presso la Chiesa del Gesù a Roma,
una mostra fotografica dal titolo “Spezziamo le catene”, realizzata dalla rivista
“Africa” dei Padri Bianchi. La mostra nasce nel ricordo della campagna antischiavista
promossa 125 anni fa dal fondatore dell’ordine dei Missionari d’Africa, il cardinale
Charles Lavigerie e intende sottolineare il perdurare di forme di schiavitù, anche
nel XXI secolo, pur se in forme diverse rispetto al passato. Ma come si attua l’azione
dei Padri Bianchi e delle Suore Bianche nei Paesi in cui essi sono presenti? Lucas
Duran ha raccolto la testimonianza di padre Alberto Rovelli, per anni missionario
a Gao, nel nord del Mali, che racconta come erano i rapporti dei religiosi con la
popolazione, in larga parte musulmana, prima che la situazione degenerasse:
R. – Bellissimi,
perché c’era davvero la ricerca di approfondimento, in fondo anche da parte loro,
della fede. Ricordo – eravamo nel 1998 – iniziava già a manifestarsi l'ala intransigente
dell’islam e un maliano viene a rammaricarsi con noi, dicendo: “Ma quelli, non ci
salutano nemmeno, ci umiliano, ci dicono che noi non siamo nemmeno credenti … Noi
ce la intendiamo bene con voi Padri, perché ci rispettate”.
D. – Che effetto
le fa vedere la situazione odierna, in particolare nel nord del Mali?
R. –
Da un lato, mi fa tristezza perché quel dialogo che c’era, quella convivenza e anche
la collaborazione per far fronte alle difficoltà della vita, sono ora tutto sospese.
Tutto è distrutto... E' distrutto il dispensario, che forniva 5-6 mila consultazioni
l’anno. Con la Caritas, poi, avevamo avviato progetti di sviluppo per le oasi nel
deserto… Ora tutto è fermo, tutto è bloccato, finito, anzi proprio distrutto, addirittura.
D.
– Tra l’altro, voi stessi Padri Bianchi siete dovuti andar via dalle zone nelle quali
eravate. Ha avuto modo, anche in questo ultimo periodo, di avere contatti con gli
abitanti con cui avevate rapporti di conoscenza?
R. – Via telefono, sì.
D.
– Che hanno detto?
R. – Sperano che si possa tornare al più presto. Uno ha
detto: “Venite presto, noi vi conosciamo, con voi possiamo vivere perché ci rispettate.
Questa gente qui, invece, arriva, ci tratta come se fossimo pagani, gente che non
crede a niente… Ci offrono denaro e se non lo prendiamo addirittura ci bastonano!”.
D.
– Nell’ipotesi – speriamo effettiva – che la situazione torni migliore nella zona
del nord del Mali, è vostra intenzione, dei Padri Bianchi, di tornare?
R. –
Sì, io ho parlato con il vescovo di Ségou – era l’ultimo vescovo con il quale ho lavorato
– che ha detto: “No, non si può mica abbandonare il nord, anzi!”. Quindi, in loro
c’è questa volontà. Speriamo che torni una certa calma. Ciò che mi preoccupa è soprattutto
il modo con il quale si pretende di mettere pace lì, al nord. Non credo sia una soluzione
militare quella da ricercare, quella da seguire. Non mi sembra che certe idee si possano
combattere con le armi, ma con altre idee buone, appunto, che possiamo cambiare soltanto
proponendo davvero un’idea ancora migliore, un’idea da un lato più umana ma poi piena
di fede.