Sentenza su diagnosi pre-impianto embrioni. Morresi: legge 40 non prevede selezione
eugenetica
Per la prima volta dall'entrata in vigore della legge 40 sulla fecondazione assistita,
un giudice del Tribunale di Cagliari ha riconosciuto il diritto ad una coppia, lei
malata di talassemia e lui portatore sano, di poter fare la diagnosi pre-impianto
presso l’Ospedale Microcitemico della città. I Centri pubblici italiani specializzati
in procreazione medicalmente assistita – si legge nella sentenza - devono offrire
la diagnosi pre-impianto alle coppie che la richiedono perché affette da malattie
genetiche. Ma la legge prevede realmente questa possibilità? Al microfono di Adriana
Masotti risponde la prof.ssa Assuntina Morresi del Comitato nazionale di
Bioetica:
R. – Innanzitutto,
la legge 40 dà solo l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita ed è pensata
per le coppie sterili o infertili; non è pensata per selezionare gli embrioni sani,
rispetto ai malati. Tant’è vero che in alcune parti – sia nella legge, sia anche nelle
linee guida – è esplicitato il divieto alla selezione eugenetica degli embrioni. Quindi,
di per sé è una forzatura, cioè la legge non consente questo tipo di procedure.
D.
– Però, la legge prevedere il diritto dei pazienti, delle coppie di essere informate,
su loro richiesta, sullo stato di salute degli embrioni da trasferire nell’utero…
R.
– Certamente. Questo viene fatto, per esempio, per via osservazionale. La legge
non dice con quali tecniche gli operatori sanitari debbano andare a verificare la
salute dell’embrione. La legge dice che, su richiesta, i genitori possono essere informati
e dice anche che ogni tipo di intervento sull’embrione deve essere finalizzato solamente
alla tutela della sua salute e del suo sviluppo, non per essere scartato. Quello che
fanno gli operatori sanitari, cioè la ratio della legge, è che, una volta fecondato
l’ovocita, si osserva l’embrione al microscopio per vedere se ci sono condizioni –
per esempio forti anomalie visibili – per cui si sa già che quell’embrione non si
svilupperà. Questo perché non si vuole trasferire un embrione che non potrà svilupparsi
in gravidanza. Ma la ratio è tutt’altra.
D. – Cosa significa allora,
chiedere ad un ospedale di attrezzarsi per poter fare una diagnosi, una procedura
che va contro la legge?
R. – E’ una forzatura della legge. Tra l’altro, è un
precedente pesante, perché se, come dicono le agenzie, addirittura con questa ordinanza
si obbliga una struttura sanitaria ad eseguire un certo specifico esame e addirittura
a dotarsi di strumentazioni e competenze per eseguire quell’esame, questo vuol dire
che a decidere i requisiti minimi per i centri di fecondazione in vitro nonché le
modalità con cui i medici fanno le diagnosi ai loro pazienti, vuol dire che a fare
questo non sono i medici, le regioni o le Asl, ma i tribunali. Anche perché, se fosse
così, cioè se per dare informazioni alle coppie che si rivolgono alla fecondazione
assistita, dovesse essere obbligatorio disporre di diagnosi preimpianto, questo significherebbe
che il 95% dei centri italiani non è in regola, perché il 95% dei centri Pma (Procreazione
medicalmente assistita) italiani non ha di questa strumentazione e non ha le competenze.
D.
– Qual è la situazione nel privato, invece?
R. – E’ la stessa, perché il privato
fa parte del servizio sanitario nazionale; non è che il privato è sottoposto a leggi
diverse. Quindi, il privato non dovrebbe dare un servizio di diagnosi preimpianto,
perché da noi non è consentita. Altro sarebbe se ci fosse un tipo di diagnosi che
consentisse di diagnosticare una malattia curabile, una patologia curabile dell’embrione,
cioè: se si potesse fare nell’embrione, quello che si fa nei feti con la spina bifida,
per esempio, per cui ci sono delle operazioni che si possono fare in utero, allora
tutte quelle indagini sarebbero nello spirito della legge, cioè a tutela della salute
e dello sviluppo dell’embrione. Adesso la diagnosi preimpianto non risponde a questo
criterio, quindi sono forzature ideologiche.