Israele risponde ai colpi di mortaio partiti dal territorio siriano. Le monarchie
del Golfo riconoscono i ribelli
Il governo turco ha protestato dopo i bombardamenti di ieri da parte dell' aviazione
di Damasco contro postazioni ribelli nella cittadina di confine di Ras al Ayn che
hanno provocato danni e feriti nel vicino comune turco. Il ministro degli esteri Davutoglu
ha aggiunto che finora gli aerei siriani “non sono entrati nello spazio turco, se
lo avessero fatto Ankara avrebbe risposto”. E tank israeliani hanno colpito l'artiglieria
mobile siriana in risposta a un colpo di mortaio partito dal territorio siriano e
caduto nel pomeriggio in Israele sulle Alture del Golan. Le sei monarchie arabe del
Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) hanno deciso di riconoscere la nuova coalizione
dell'opposizione uscita dall'incontro di Doha come ''rappresentante legittima del
popolo siriano fratello''. Lo ha detto in un comunicato il segretario generale del
Ccg, Abdullatif al Zayani. Della svolta avvenuta nel fronte degli insorti, Giancarlo
La Vella ha parlato con Stefano Polli, responsabile esteri dell’Agenzia
Ansa:
R. – Sicuramente,
è una svolta importante perché uno dei problemi che l’opposizione ha avuto in questi
mesi – sia del punto di vista politica, con un riflesso poi anche sul terreno, sia
dal punto di vista militare – è proprio la frammentazione: il fatto di essere molto
divisa, molto eterogenea. Quindi, la decisione presa a Doha è importante, perché adesso
l’opposizione ha una sua unità, ha un suo leader riconosciuto e ha un programma politico
e militare unificato. Sicuramente, anche il riconoscimento venuto dagli Stati Uniti
è fondamentale, perché è chiaramente un segnale forte che viene dato al regime siriano.
Comunque, adesso è ancora presto: bisognerà vedere e capire se concretamente questa
unità di intenti dimostrata a Doha avrà poi dei riflessi veri sul terreno. Per cui,
questa presa di posizione degli Stati Uniti è fondamentale, perché lancia un messaggio
ad Assad: è chiaro che questo è il primo passo, ma a questo punto gli Stati Uniti
sono scesi in campo.
D. – Rischia di aprirsi comunque un altro fronte decisivo
anche con Israele: secondo te, lo Stato ebraico potrebbe essere coinvolto nella crisi
siriana?
R. – Purtroppo sì. Un altro dei problemi che vi sono stati, dovuti
proprio alla lentezza della reazione internazionale, è il rischio dell’effetto contagio.
Questo in parte è già successo, per esempio, con il Libano, ma anche con la Turchia
c’è una situazione molto delicata. Adesso è successo anche con Israele, ma Israele
non è la Turchia e non è neanche il Libano. Israele è pronta a rispondere alle provocazioni
che vengono dalla Siria e questo va a complicare un teatro già difficile, perché Israele
– in questo momento – ha tre fronti aperti e non solo con la Siria, ma al sud con
Gaza e inoltre c’è sempre l’ombra del nucleare iraniano con la possibilità di un attacco
israeliano, più di una volta ventilato. Insomma, la situazione è molto complicata
e ogni giorno che passa il puzzle diventa più difficile.
D. – Da tutto questo
rimane fuori l’ipotesi di un intervento umanitario, a fronte di una emergenza che
sta diventando ogni giorno sempre più drammatica…
R. – Questa è la vera emergenza.
La popolazione siriana continua a scappare da un Paese, dove c’è una guerra civile
vera e propria: ci sono centinaia di morti tutti i giorni, la gente fugge e l’emergenza
umanitaria è gravissima. In questa situazione, è difficile agire, perché è difficile
arrivare in Siria ad aiutare questi profughi e anche sui confini dei Paesi vicini
non si sta facendo abbastanza.