Sugli schermi in Italia il nuovo film di Castellitto "Venuto al mondo"
E' uscito ieri nelle sale italiane “Venuto al mondo”, il nuovo film di Sergio Castellitto
tratto dall’omonimo romanzo della moglie Margaret Mazzantini: un viaggio emozionale
e tragico sospeso tra Italia e Bosnia, tra un recentissimo passato segnato dal sangue
e dalla guerra e un presente che ne porta le dolorose ferite, una storia di madri
e donne alla ricerca della verità e del perdono. Il servizio di Luca Pellegrini:
Gemma non può
diventare madre, Diego, ragazzo americano, per questo non sarà mai un padre e ha un
passato difficile alle spalle, la loro storia dolorosa si interseca e collide con
le tragedie e gli orrori della guerra in Bosnia, dove la vita che loro cercano è invece
offuscata, calpestata, annullata dalla violenza. Nella Sarajevo assediata tutti troveranno
il loro destino, di sangue e di speranza, un figlio nascerà, alcuni non troveranno
pace, altri in forza dell’amore saranno capaci di perdonare e di guardare avanti.
L’omonimo romanzo di Margaret Mazzantini è stato trasposto dal marito e regista Sergio
Castellitto in un film denso e sincero con una coppia di ottimi attori, Penelope Cruz
e Emile Hirsch, a rappresentare un futuro negato e una sorriso in cui le vittime sopravvivono
alla più tragica delle verità. Così il regista italiano ricorda la genesi di questo
progetto a cui ha lavorato con grande emozione. Per Sergio Castellitto girare
questo film è stata anche un’avventura umana, perché è entrato in contatto con storie
che tentiamo sempre di respingere:
R. - Sei anni fa non c’era niente. Sei anni
fa c’erano un uomo e una donna che hanno preso un aereo e sono andati a Sarajevo.
Io ho accompagnato Margaret ed è stata tre giorni in quella città. Poi è tornata e
ha cominciato a scrivere. Ha cominciato a scrivere qualcosa il cui primo germe, il
cui primo virus, nasceva dieci anni prima, quando Margaret, incinta di Pietro - quindi
con l’idea dell’attesa, della fiducia verso il futuro, perchè aspettava il nostro
primo figlio - vedeva Gad Lerner che ci raccontava che dall’altra parte dell’Adriatico
c’era l’assenza del futuro, cioè il sopruso della guerra. Ho fatto lunghissimi sopralluoghi,
ho viaggiato, sono stato a Sarajevo, in quella città ferita, emotivamente ancora "fuori
sync", in qualche modo, dove forse vittime e carnefici ancora passeggiano assieme
e non sanno chi sia la vittima e non sanno chi sia il carnefice, per andare a raccontare
l’esatto opposto di tutto quell’orrore, che è una storia d’amore. Tarkowsky diceva
che ogni opera artistica, ogni film che abbia un’intenzione artistica è semplicemente
una dichiarazione d’amore. Io ho tentato di fare soltanto questo. La vita è un buco,
che si infila in un altro buco e stranamente lo riempie: questa è la frase del libro,
che mi ha sempre accompagnato e che ho scritto sulla mia fronte dal primo all’ultimo
giorno di riprese. E quel buco, quel “manco”, quell’assenza, quella necessità dell’altro
- o nel senso dell’amore o nel senso dell’amicizia o nel senso della fraternità -
è questo film.