Il commercio delle armi non conosce crisi: spesa militare oltre 1700 mld. di dollari
Nel mondo, nonostante la crisi, la spesa militare ha superato i 1.700 miliardi di
dollari. La denuncia arriva da un libro-inchiesta dal titolo “Armi, un affare di Stato”,
edito da Chiare Lettere, che svela come la produzione e il commercio di armamenti
siano dominati quasi totalmente dalle scelte politiche dei governi. Il libro mette
per la prima volta in luce anche il sistema corrotto delle commesse e svela i nomi
della potente lobby che domina il mercato. Federico Piana ha intervistato uno
degli autori, Francesco Vignarca, coordinatore nazionale della Rete italiana
per il disarmo:
R. - Noi siamo
abituati a pensare che quando si comprano o si vendono armi, ci siano trafficanti
e giochi loschi. Invece dobbiamo cambiare paradigma, ed è quello che abbiamo cercato
di scrivere nel libro. Le armi vengono comprate, ma vengono anche prodotte dagli Stati,
perché le industrie sono indirettamente o direttamente di partecipazione pubblica:
sono loro i veri protagonisti di questo commercio; sono loro i protagonisti dei soldi
che vengono - a parer nostro - buttati complessivamente nelle spese militari. L’anno
scorso abbiamo superato la quota di 1.700 miliardi di dollari - più di due volte il
budget delle Nazioni Unite - che gli Stati mettono nelle spese militari e di questi
oltre 400 miliardi sono dedicati a comprare armamenti.
D. - Quali sono gli
Stati che spendono di più?
R. - Dobbiamo distinguere tra chi spende molto,
e qui ci sono ovviamente gli Stati Uniti in testa, ma anche sempre di più le cosiddette
economie emergenti - quindi Cina, Brasile, India - senza dimenticare la Russia e i
player tradizionali e quindi Gran Bretagna, Francia, Germania e anche Italia a spendere
per le armi. Poi c’è una differenziazione da fare tra chi produce - e chi produce
sono più che altro i Paesi occidentali e quindi ancora una volta Stati Uniti, Gran
Bretagna, Francia, Germania e Italia, oltre alla Russia - e chi acquista, che sono
sempre di più i luoghi caldi del nostro globo e quindi in Paesi del Medio Oriente
- e non ci si deve quindi stupire se poi, quando succede qualche cosa, si verifica
qualche problematica o scoppia qualche guerra civile, siano proprio le nostre armi
che sparano - o in Paesi anche come l’India e il Pakistan. L’anno scorso, l’India
è diventata il maggiore acquirente mondiale di armamenti.
D. - L’Italia, in
che posizione è?
R. - Diciamo che noi siamo a ridosso delle prime 10 posizioni
come spenditori, perché appunto le nuove economie hanno preso un po’ il sopravvento.
Sicuramente, però, l’Italia è tra i principali produttori, in particolare in alcuni
segmenti: penso agli elicotteri, penso ad alcuni tipi di aerei. E lì la nostra industria
- tutto sommato - di Stato, perché il 30 per cento è posseduto dal Ministero del Tesoro,
è tra le prime dieci industrie produttrici mondiali. L’altro aspetto fondamentale,
però, è che l’Italia è il secondo esportatore mondiale di armi leggere, le cosiddette
armi piccole, che però sono le vere armi di distruzione di massa, perché fanno circa
500 mila morti l’anno e questo vuol dire un morto al minuto. E’ incredibile, come
ancora oggi e nonostante la Conferenza di luglio per un trattato internazionale sugli
armamenti - che è in realtà fallita - non ci sia ancora una regola internazionale
sulla compravendita di armi. Dispiace anche che l’Italia, proprio a livello internazionale,
durante questa conferenza, abbia cercato di tener fuori le armi leggere - proprio
perché per noi sono molto importanti e rappresentano un business molto importante
- da una regolamentazione. Oggi come oggi sappiamo il nome della gallina che ha fatto
l’uovo che mangiamo a tavola o sappiamo da dove è stata colta la banana che prendiamo
per frutta, ma non c’è una regola che ci permetta di sapere dove sono state prodotte,
chi le ha vendute e dove sono arrivate le armi, che invece fanno un po’ più male delle
banane….
D. - C’è un caso in Europa, che voi citate anche in questo libro,
che è un caso da manuale: la Grecia, sull’orlo del default, spende - dite voi - di
più in Europa per le armi. Come mai?
R. - Tradizionalmente la Grecia è stata
un grande spenditore dal punto di vista militare per le mai sopite e anche molto costruite
- e noi scriviamo anche questo nel libro, perché spesso il nemico è costruito - minacce
esterne, che anche se non è vera, costringe ad armarsi fino a denti. La Grecia - che
ha speso negli anni anche fino al 4 per cento del proprio Pil per gli armamenti -
è stata costretta, in questi ultimi due anni, a grosse cure dimagranti della spesa
pubblica, con problemi sociali non banali. D’altro canto, invece, la Francia e la
Germania, protagoniste nel chiedere questi tagli, hanno preteso che gli acquisti militari
che la Grecia aveva già ordinato nei confronti delle industrie armiere francesi e
tedesche, non fossero cancellati e che quindi i sottomarini tedeschi - per esempio
- si dovessero continuare a comprare. Questa ci sembra veramente una visuale molto
strabica: cercare di controllare quella che è la spesa sociale, ma non cancellare
la spesa militare. Un po’ come succede anche in Italia, per fare il solito esempio,
che noi stiamo portando da tempo, del cacciabombardiere F35. Ebbene la paventata,
la prevista riduzione, anzi l’aumento dell’Iva per le cooperative sociali - che erogano
servizi sanitari e scolastici per le persone con disabilità, e che forse verrà portata
dal 4 al 10 per cento - il gettito previsto dal governo è pari ad un cacciabombardiere
e mezzo. Noi crediamo che sia molto più sensato per difendere la vita degli italiani
e in particolare delle persone svantaggiate, che ci siano magari dei cacciabombardieri
in meno o meglio ancora nessun cacciabombardiere, e un vantaggio maggiore, anche dal
punto di vista fiscale, a chi eroga servizi - come in questo caso - sanitari o scolastici.