E’ in corso in Israele e nei Territori palestinesi occupati la Marcia della pace Perugia-Assisi
di quest’anno. Oltre 200 studenti, insegnanti, amministratori locali, esponenti di
associazioni e giornalisti si trovano da sabato scorso in Terra Santa per portare
un messaggio di pace e di promozione del dialogo alle comunità locali. L’iniziativa
è promossa dal Coordinamento nazionale e dalla Rete europea degli Enti locali per
la pace e i diritti umani, in collaborazione con la Tavola della Pace. Dopo Sderot,
Ramallah, Hebron, Gerusalemme, la tappa a Betlemme. Ma perché la scelta di trasferire
l’edizione 2012 della Marcia proprio in Israele e nei Territori palestinesi? Adriana
Masotti lo ha chiesto a Francesco Cavalli della Tavola della Pace:
R. – Noi già
nel 2009 avevamo organizzato una Marcia Perugia-Assisi proprio fra Betlemme e Gerusalemme.
Quest’anno abbiamo deciso di tornare a portare la Perugia-Assisi, a portare il movimento
per la pace sempre fra Betlemme e Gerusalemme, fra i Territori palestinesi occupati
e lo Stato di Israele, proprio a simboleggiare come questa situazione, questo conflitto,
che è il più lungo della storia dei nostri tempi, deve continuare ad essere al primo
posto per chi vuole essere impegnato per la pace. Oggi viviamo in un tempo che è quello
della crisi internazionale, della crisi economica, che in realtà sappiamo non essere
solo una crisi economica ma una crisi etica, di valori, culturale… In questo posto,
da questi punti di vista, la strada per riuscire a risolvere anche quelle che sono
le crisi occidentali, le crisi nostre, non può che essere il percorso per la pace.
Quindi da qui vogliamo ripartire.
D. – Voi dite: Israele e Palestina sono due
prigioni diverse, ma sempre prigioni. Betlemme è una prigione a cielo aperto, così
Gaza, mentre in Israele a Sderot, al confine con Gaza, il tempo è scandito dalle guerre
che impongono una certa mentalità di chiusura…
R. – La prigione di Israele
è quella di vivere in una condizione di paura degli israeliani, di vivere in uno stato
di paura continuo e questo porta ad alzare il livello della distanza nei confronti
del popolo palestinese. Noi siamo andati a Sderot il pomeriggio quando la mattina
erano stati sparati sulla città 11 razzi dalla Striscia di Gaza. D’altra parte Betlemme
è questo posto circondato dal muro dove si entra e si esce, attraverso un check-point,
solo se hai un passaporto giusto e hai un permesso giusto, altrimenti non esci e non
entri. Quindi è una prigione nel senso più concreto e reale del termine: un posto
recintato, circondato, dal quale si può uscire solamente se si hanno determinate condizioni.
D.
– Con conseguenze ovviamente su tutta la vita quotidiana. Però forse siamo più abituati
a parlare di queste difficoltà di chi vive in Palestina, mentre sappiamo poco di come
gli israeliani vivono l’esistenza di palestinesi accanto a loro: se hanno contatti,
se si conoscono, se si ignorano…
R. - Ci siamo recati in un villaggio a sud
di Hebron. In questo villaggio c’è un’azione di resistenza ad uno sfollamento del
villaggio stesso, imposto da Israele, per fare spazio alla liberazione della terra
vicino alla costruzione di insediamenti. Siamo all’interno della West Bank, seppure
in zona sotto il controllo israeliano. Qui gli attivisti palestinesi che abbiamo incontrato
ci hanno raccontato che la loro azione di lotta non violenta nei confronti di questo
sfollamento forzato, che fino ad oggi è riuscito ancora a tenere, è partita proprio
attraverso il coinvolgimento e la mobilitazione di una associazione israeliana, fatta
di israeliani, che si sono fatti carico di questa situazione e insieme ai palestinesi
stanno facendo questa lotta di resistenza, anche attraverso il coinvolgimento poi
delle associazioni internazionali. Qui per esempio è molto attiva “Operazione colomba”
della Comunità Papa Giovanni XXIII di Rimini. Chiedeva in che consiste la loro relazione…
Proprio oggi ho chiesto al responsabile di questa associazione palestinese chi è per
lui l’israeliano e lui mi ha detto: l’israeliano è da una parte i militari, quelli
che cercano di portarci via, ma dall’altra è i fratelli che al nostro fianco stanno
cercando di resistere a questo sfollamento.
D. – Un’attivista israeliana, Nomika
Zion, dice che per la gran parte degli israeliani i palestinesi non hanno una faccia,
una voce, un nome: è così?
R. – E’ sicuramente così, ma è vero anche il contrario.
Io sono stato a Gaza più volte negli anni passati e l’idea che la maggior parte dei
palestinesi che vivono dentro Gaza ha degli israeliani è quella di un caschetto e
di un mitra puntato, perché non hanno mai avuto esperienze diverse.
D. – Obiettivo
della vostra presenza è costruire vicinanza, perché voi pensate che la vicinanza può
cambiare le cose. Che cosa vi augurate che rimanga in Israele e in Palestina dopo
questa vostra missione di pace?
R. – Qui speriamo che rimanga un po’ più di
speranza. Noi possiamo portare solo una condivisione, una vicinanza a persone che
sono in difficoltà da una parte e dall’altra. Quello che ci aspettiamo di più è che
cosa possa cambiare fuori da qui, perché quello che da qui è chiaro è che la soluzione
a questo conflitto può avvenire solamente con la partecipazione anche dell’esterno,
dell’Europa, degli Stati Uniti. Senza un impegno serio e con una volontà di efficacia
vera non c’è soluzione a questa situazione.