2012-10-30 10:45:21

NUOVA EVANGELIZZAZIONE: La parola ai Padri Sinodali africani


Il compito che ci eravamo prefissi per questo editoriale era quello di stilare un elenco delle principali preoccupazioni che hanno accompagnato i vescovi africani venuti a partecipare all’appuntamento ecclesiale del Sinodo sulla nuova evangelizzazione. La risposta quasi unanime che abbiamo avuto da tutti coloro con i quali abbiamo dialogato è stata: “Siamo venuti per ascoltare, quindi aspettiamo, prima dobbiamo ascoltare…”
In questo senso, molti hanno chiesto di rimandare le interviste ad una data più lontana, magari più vicina alla fine dell’evento in modo da consentire di fare un bilancio delle prospettive dopo il Sinodo e sull’apporto che il continente africano può e deve dare per questa sfida della nuova evangelizzazione. Tutti i vescovi interpellati hanno sottolineato, però, con forza, che la Chiesa in Africa è oggi impegnata nella ricerca di modalità più idonee per implementare l’esortazione post sinodale “Africae Munus”, tenendo presente che le sfide della pace, della giustizia e della riconciliazione sono le più urgenti per il continente africano oggi. Evangelizzare la cultura africana in un’ottica evangelica di pace, giustizia e riconciliazione, quindi: che cosa ci dice oggi il Dio di Gesù Cristo, in un contesto culturale dominato da una cultura dell’antifratello, dell’odio, della violenza, dell’oppressione, della povertà antropologica e strutturale, ma anche di grande effervescenza di fede e di speranza?

Il problema rimane quindi, quello dell’inculturazione del Vangelo e dell’identità cristiana (tema principale del Concilio Vaticano II e del Sinodo del ’94) in un’ottica di liberazione (pace, giustizia, riconciliazione) e nello spirito della nuova evangelizzazione. Insomma, la stessa parola “nuova evangelizzazione” rimane ancora un concetto da definire. Ai vescovi africani con cui abbiamo parlato appare chiaro che la convocazione del Successore di Pietro a questa assemblea sinodale sulla nuova evangelizzazione, nell’anno della fede, si inserisce nel progetto globale volto a inculturare il Vangelo, che è una delle grandi sfide della Chiesa nel suo insieme.
Bisogna tenere incessantemente conto dei mutamenti in corso, per domandarsi cosa vuol dire Dio in Gesù Cristo, a partire dalla dottrina del magistero ecclesiale. Questa elaborazione in concetti e parole si assume ogni volta il rischio enorme di esprimere, nel linguaggio degli uomini e delle donne di ogni tempo, il senso della Rivelazione nella pluralità delle culture ed identità. In altri termini, non ci sono solo i problemi ermeneutici legati ai simboli della fede, che interrogano gli esegeti e i teologi, in un mondo che cambia e necessita di nuove fedeltà creatrici. Ciò che obbliga a ripensare il ministero incaricato di vigilare sulla fede dei discepoli di Gesù, al giorno d’oggi, è il modo di adempiere questo ministero in un universo sempre più plurale e complesso dal punto di vista culturale, economico, politico, geopolitico, religioso e spirituale. Per cui quello che fino a qualche epoca fa sembrava essere la specificità delle chiese di Africa e di Asia, ritorna ad essere oggi il compito di tutta la chiesa: l’inculturazione, per definire un volto ed un’identità cristiana nel mondo contemporaneo.

La parola inculturazione è apparsa, per la prima volta, nel lontano 1977, nel “Messaggio alla Chiesa universale indirizzato dal Sinodo dei Vescovi sulla catechesi”, ed è stata poi inserita in ben diciassette testi ufficiali (secondo la recensione fatta dal teologo Hervé Carrier su questo termine). Dopo i documenti conciliari che parlano di cultura e di evangelizzazione, due esortazioni apostoliche di Papa Paolo VI e una di Giovanni Paolo II, quattro allocuzioni, alcuni discorsi e tre encicliche di Giovanni Paolo II tornano su questo tema, in modo particolare la Redemptoris Missio e l’esortazione Ecclesia in Africa. Tenendo presente che “è proprio della persona umana non accedere veramente all’umanità se non per la cultura”, come aveva affermato il Concilio Vaticano II, Giovanni Paolo II arriva a dire che l’inculturazione costituisce “il cuore, il mezzo e il fine della nuova evangelizzazione”. Evidentemente, questa esigenza della fede e della missione non è riservata alle Chiese d’Africa e d’Asia. E’ una sfida anche per il vescovo di Roma, che deve dare l’esempio dell’inculturazione del cristianesimo nei mutamenti storici e culturali del nostro tempo, a cinquant’anni dal Concilio Vaticano II. Insomma, l’inculturazione non riguarda solo gli altri del sud del Pianeta. La richiesta delle culture rispetto alla Chiesa deve incidere su tutte le istanze di regolazione della fede. In questo senso, il progetto d’inculturazione si inserisce nella funzione critica del Vangelo di Gesù Cristo Liberatore nei confronti del mondo contemporaneo, particolarmente nelle regioni “euro nordoccidentali”. Qui, dopo due millenni di storia cristiana e cinquanta anni dopo il Concilio Vaticano II, si scopre che la fede è ridotta ad un puro atto individuale o ad un dibattito meramente politico perché la cultura euronordoccidentale si è sempre più “scristianizzata”. Per di più vi è una certa insofferenza a riconoscere, ad esempio, la paternità cristiana nella formazione della cultura moderna e contemporanea europea.

Ora, non è un caso che a convocare questa assemblea sinodale sia stato Papa Benedetto XVI, cioè colui che oltre ad aver partecipato al Concilio Vaticano II, è stato anche il più stretto collaboratore di Giovanni Paolo II. Egli aggiunge, però, una novità in questa sfida della nuova evangelizzazione: chiede che il compito venga esercitato nello spirito di un vocabolo che da decenni era scomparso dal contesto ecclesiologico: il concetto di corresponsabilità nella Chiesa. Il tutto affinché si possa ridare al mondo intero il segno della Chiesa come dimora, luogo d’ascolto, di dialogo e di libertà gioiosa dei figli di Dio. E così essa sia specchio per un’umanità sempre più in divenire, nelle parole di Giovanni Paolo II, una “famiglia delle Nazioni”.

Già verso la fine del pontificato di Giovanni Paolo II si sono tentati assaggi d’ecclesiologia di comunione. Sulla soglia del nuovo millennio, Giovanni paolo II ha invitato i cristiani ad assumere questa sfida della fede all’inizio del terzo millennio: “fare della Chiesa la casa e la scuola di comunione”. Queste preoccupazioni sono giustificate in un contesto storico e culturale segnato da un cristianesimo della salvezza individuale che, fin dal Rinascimento, si è dimostrato incapace di valorizzare le dimensioni comunitarie della vita attraverso una riflessione rinnovata del mistero trinitario.

In materia quindi di inculturazione le chiese dell’Africa e dell’Asia hanno molto da dare. Resta tuttavia una questione per le chiese di più antica cristianizzazione: dopo secoli in cui hanno pensato che il paradigma dell’inculturazione e della costruzione dell’identità cristiana riguardasse solo le cosiddette “chiese di missione”, sono disponibili oggi ad ascoltare queste stesse realtà ecclesiali ed aprirsi ad uno spirito di corresponsabilità ecclesiale, nella pari dignità di figli di Dio, creati alla stessa immagine e somiglianza di Dio? Se la chiesa, nel suo insieme, giudica le culture, non potrebbe accettare di essere giudicata da esse in nome dell’inculturazione, che esige una risposta più globale, corresponsabile e corresponsabilizzante? L’interrogativo potrebbe essere spinto al limite, domandandosi con quale universo culturale la Chiesa, nel suo insieme, abita e vuole abitare il mondo del nostro tempo? In questo senso, non dovrebbe interrogarsi sulla pertinenza delle sue interpretazioni della Parola di Dio sempre culturalmente situate? Si tratta di domande cruciali che non possono prescindere da una riposta che nasca da un dialogo di corresponsabilità per le sorti di questa umanità che rimane, già nelle parole di Paolo VI, il cammino della Chiesa.

L’augurio che facciamo è che questo Sinodo possa rigenerare nella coscienza di tutti la consapevolezza che, in quanto esseri umani, Dio ha dotato ciascuno di noi di due orecchie, due occhi ed una sola bocca. La domanda è: quale di questi usiamo di più e perché?

Chi ha fretta di dire sempre ciò che pensa finisce sempre con il mordersi la lingua. L’unico modo per evitare il ripetersi di questa prassi, dopo duemila anni di storia, è imparare finalmente ad ascoltare nello spirito della corresponsabilità, che tiene conto che la parola è sempre creatrice e che le nostre parole sono come l’acqua e il sangue: una volta versate non possono più essere raccolte. Ora, il dramma della fede oggi è precisamente la perdita del senso del linguaggio.
Da questo punto di vista, la Chiesa, come dicono André Manaranche e Jean-Marc Ela, è invitata a considerare accuratamente quel che deve dire, e a parlare con modestia ma anche con profonda convinzione di fede in Gesù Cristo Liberatore.

A cura di Filomeno Lopes, redazione portoghese per l’Africa della Radio Vaticana







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