NUOVA EVANGELIZZAZIONE: La parola ai Padri Sinodali africani
Il compito che ci eravamo prefissi per questo editoriale era quello di stilare un
elenco delle principali preoccupazioni che hanno accompagnato i vescovi africani venuti
a partecipare all’appuntamento ecclesiale del Sinodo sulla nuova evangelizzazione.
La risposta quasi unanime che abbiamo avuto da tutti coloro con i quali abbiamo dialogato
è stata: “Siamo venuti per ascoltare, quindi aspettiamo, prima dobbiamo ascoltare…” In
questo senso, molti hanno chiesto di rimandare le interviste ad una data più lontana,
magari più vicina alla fine dell’evento in modo da consentire di fare un bilancio
delle prospettive dopo il Sinodo e sull’apporto che il continente africano può e deve
dare per questa sfida della nuova evangelizzazione. Tutti i vescovi interpellati hanno
sottolineato, però, con forza, che la Chiesa in Africa è oggi impegnata nella ricerca
di modalità più idonee per implementare l’esortazione post sinodale “Africae Munus”,
tenendo presente che le sfide della pace, della giustizia e della riconciliazione
sono le più urgenti per il continente africano oggi. Evangelizzare la cultura africana
in un’ottica evangelica di pace, giustizia e riconciliazione, quindi: che cosa ci
dice oggi il Dio di Gesù Cristo, in un contesto culturale dominato da una cultura
dell’antifratello, dell’odio, della violenza, dell’oppressione, della povertà antropologica
e strutturale, ma anche di grande effervescenza di fede e di speranza?
Il
problema rimane quindi, quello dell’inculturazione del Vangelo e dell’identità cristiana
(tema principale del Concilio Vaticano II e del Sinodo del ’94) in un’ottica di liberazione
(pace, giustizia, riconciliazione) e nello spirito della nuova evangelizzazione. Insomma,
la stessa parola “nuova evangelizzazione” rimane ancora un concetto da definire. Ai
vescovi africani con cui abbiamo parlato appare chiaro che la convocazione del Successore
di Pietro a questa assemblea sinodale sulla nuova evangelizzazione, nell’anno della
fede, si inserisce nel progetto globale volto a inculturare il Vangelo, che è una
delle grandi sfide della Chiesa nel suo insieme. Bisogna tenere incessantemente
conto dei mutamenti in corso, per domandarsi cosa vuol dire Dio in Gesù Cristo, a
partire dalla dottrina del magistero ecclesiale. Questa elaborazione in concetti e
parole si assume ogni volta il rischio enorme di esprimere, nel linguaggio degli uomini
e delle donne di ogni tempo, il senso della Rivelazione nella pluralità delle culture
ed identità. In altri termini, non ci sono solo i problemi ermeneutici legati ai simboli
della fede, che interrogano gli esegeti e i teologi, in un mondo che cambia e necessita
di nuove fedeltà creatrici. Ciò che obbliga a ripensare il ministero incaricato di
vigilare sulla fede dei discepoli di Gesù, al giorno d’oggi, è il modo di adempiere
questo ministero in un universo sempre più plurale e complesso dal punto di vista
culturale, economico, politico, geopolitico, religioso e spirituale. Per cui quello
che fino a qualche epoca fa sembrava essere la specificità delle chiese di Africa
e di Asia, ritorna ad essere oggi il compito di tutta la chiesa: l’inculturazione,
per definire un volto ed un’identità cristiana nel mondo contemporaneo.
La
parola inculturazione è apparsa, per la prima volta, nel lontano 1977, nel “Messaggio
alla Chiesa universale indirizzato dal Sinodo dei Vescovi sulla catechesi”, ed è stata
poi inserita in ben diciassette testi ufficiali (secondo la recensione fatta dal teologo
Hervé Carrier su questo termine). Dopo i documenti conciliari che parlano di cultura
e di evangelizzazione, due esortazioni apostoliche di Papa Paolo VI e una di Giovanni
Paolo II, quattro allocuzioni, alcuni discorsi e tre encicliche di Giovanni Paolo
II tornano su questo tema, in modo particolare la Redemptoris Missio e l’esortazione
Ecclesia in Africa. Tenendo presente che “è proprio della persona umana non
accedere veramente all’umanità se non per la cultura”, come aveva affermato il Concilio
Vaticano II, Giovanni Paolo II arriva a dire che l’inculturazione costituisce “il
cuore, il mezzo e il fine della nuova evangelizzazione”. Evidentemente, questa esigenza
della fede e della missione non è riservata alle Chiese d’Africa e d’Asia. E’ una
sfida anche per il vescovo di Roma, che deve dare l’esempio dell’inculturazione del
cristianesimo nei mutamenti storici e culturali del nostro tempo, a cinquant’anni
dal Concilio Vaticano II. Insomma, l’inculturazione non riguarda solo gli altri del
sud del Pianeta. La richiesta delle culture rispetto alla Chiesa deve incidere su
tutte le istanze di regolazione della fede. In questo senso, il progetto d’inculturazione
si inserisce nella funzione critica del Vangelo di Gesù Cristo Liberatore nei confronti
del mondo contemporaneo, particolarmente nelle regioni “euro nordoccidentali”. Qui,
dopo due millenni di storia cristiana e cinquanta anni dopo il Concilio Vaticano II,
si scopre che la fede è ridotta ad un puro atto individuale o ad un dibattito meramente
politico perché la cultura euronordoccidentale si è sempre più “scristianizzata”.
Per di più vi è una certa insofferenza a riconoscere, ad esempio, la paternità cristiana
nella formazione della cultura moderna e contemporanea europea.
Ora, non è
un caso che a convocare questa assemblea sinodale sia stato Papa Benedetto XVI, cioè
colui che oltre ad aver partecipato al Concilio Vaticano II, è stato anche il più
stretto collaboratore di Giovanni Paolo II. Egli aggiunge, però, una novità in questa
sfida della nuova evangelizzazione: chiede che il compito venga esercitato nello spirito
di un vocabolo che da decenni era scomparso dal contesto ecclesiologico: il concetto
di corresponsabilità nella Chiesa. Il tutto affinché si possa ridare
al mondo intero il segno della Chiesa come dimora, luogo d’ascolto, di dialogo e di
libertà gioiosa dei figli di Dio. E così essa sia specchio per un’umanità sempre più
in divenire, nelle parole di Giovanni Paolo II, una “famiglia delle Nazioni”.
Già
verso la fine del pontificato di Giovanni Paolo II si sono tentati assaggi d’ecclesiologia
di comunione. Sulla soglia del nuovo millennio, Giovanni paolo II ha invitato i cristiani
ad assumere questa sfida della fede all’inizio del terzo millennio: “fare della Chiesa
la casa e la scuola di comunione”. Queste preoccupazioni sono giustificate in un contesto
storico e culturale segnato da un cristianesimo della salvezza individuale che, fin
dal Rinascimento, si è dimostrato incapace di valorizzare le dimensioni comunitarie
della vita attraverso una riflessione rinnovata del mistero trinitario.
In
materia quindi di inculturazione le chiese dell’Africa e dell’Asia hanno molto da
dare. Resta tuttavia una questione per le chiese di più antica cristianizzazione:
dopo secoli in cui hanno pensato che il paradigma dell’inculturazione e della costruzione
dell’identità cristiana riguardasse solo le cosiddette “chiese di missione”, sono
disponibili oggi ad ascoltare queste stesse realtà ecclesiali ed aprirsi ad uno spirito
di corresponsabilità ecclesiale, nella pari dignità di figli di Dio,
creati alla stessa immagine e somiglianza di Dio? Se la chiesa, nel suo insieme, giudica
le culture, non potrebbe accettare di essere giudicata da esse in nome dell’inculturazione,
che esige una risposta più globale, corresponsabile e corresponsabilizzante? L’interrogativo
potrebbe essere spinto al limite, domandandosi con quale universo culturale la Chiesa,
nel suo insieme, abita e vuole abitare il mondo del nostro tempo? In questo senso,
non dovrebbe interrogarsi sulla pertinenza delle sue interpretazioni della Parola
di Dio sempre culturalmente situate? Si tratta di domande cruciali che non possono
prescindere da una riposta che nasca da un dialogo di corresponsabilità per le sorti
di questa umanità che rimane, già nelle parole di Paolo VI, il cammino della Chiesa.
L’augurio
che facciamo è che questo Sinodo possa rigenerare nella coscienza di tutti la consapevolezza
che, in quanto esseri umani, Dio ha dotato ciascuno di noi di due orecchie, due occhi
ed una sola bocca. La domanda è: quale di questi usiamo di più e perché?
Chi
ha fretta di dire sempre ciò che pensa finisce sempre con il mordersi la lingua. L’unico
modo per evitare il ripetersi di questa prassi, dopo duemila anni di storia, è imparare
finalmente ad ascoltare nello spirito della corresponsabilità, che tiene conto che
la parola è sempre creatrice e che le nostre parole sono come l’acqua e il sangue:
una volta versate non possono più essere raccolte. Ora, il dramma della fede oggi
è precisamente la perdita del senso del linguaggio. Da questo punto di vista,
la Chiesa, come dicono André Manaranche e Jean-Marc Ela, è invitata a considerare
accuratamente quel che deve dire, e a parlare con modestia ma anche con profonda convinzione
di fede in Gesù Cristo Liberatore.
A cura di Filomeno Lopes,
redazione portoghese per l’Africa della Radio Vaticana