Gemelli: seminario sulla missione del chirurgo in contesti di guerra
Confrontarsi con emergenze umanitarie, operare in zone di conflitto e disagiate, è
una delle prove più difficili per un medico, in particolare per un chirurgo. Diventa
un dovere sapersi adattare a nuovi paradigmi e acquisire conoscenze e una formazione
adeguata a fronteggiare situazioni estreme. È da questa particolare visione della
missione del medico che nasce il seminario “Chirurgia di guerra e non: situazioni
estreme” promosso dalla Scuola di Specializzazione in Chirurgia Generale dell’Università
Cattolica, e svoltosi al Policlinico Gemelli di Roma. A portare la sua testimonianza
Mauro Della Torre, chirurgo della Croce Rossa Internazionale di Ginevra, da
anni impegnato su vari scenari di tensione. Salvatore Sabatino gli ha chiesto
cosa spinga un chirurgo a fare una scelta così estrema:
R. – Sono scelte
importanti. Sono scelte caratterizzate da situazioni in cui la chirurgia, lo stato
di lavoro in Italia – o perlomeno nei nostri ospedali – ci porta a cambiare, per diversi
motivi. Prima di tutto, c’è un’etica personale, un’etica professionale. Quando ci
si rende conto, alla fine della giornata, che con i soldi che si spendono per un giorno
di ospedalizzazione per un paziente in Italia si possono curare per mesi pazienti
in situazioni estreme in condizioni con risorse limitate. Quindi, in linea di massima
è un approccio sostanzialmente personale, non clinico-professionale.
D. – Si
opera senza tecnologia, nella maggior parte dei casi, in emergenza, in scenari che
sono pericolosi: insomma, una scelta coraggiosa...
R. – Si vuole riuscire a
garantire un minimo di supporto sanitario a persone che non hanno niente, e generalmente
– come Croce Rossa internazionale – lavoriamo in scenari di guerra, per cui le risorse
sono limitate, i livelli di sicurezza sono molto bassi. Però, alla fine della giornata
ci ricrediamo sempre di quello che facciamo guardando in faccia questi pazienti che
altrimenti avrebbero un destino diverso.
D. – Lei ha operato in Palestina,
in Uganda, in Etiopia, in Sudan: tutte situazioni estreme. Cosa le è rimasto impresso
nella mente, di quelle esperienze?
R. – I ricordi sono molteplici, ognuno ha
un evento caratteristico. Molte volte, purtroppo, rimangono degli incubi che in qualche
modo vengono alleggeriti dal sorriso di un bambino o da un risultato positivo. Non
ci pensiamo perché sostanzialmente siamo dei professionisti e come tali dobbiamo agire;
molte volte siamo freddi al momento dell’intervento, dell’azione chirurgica. Il problema
nasce con i ricordi, nei mesi successivi, magari guardando delle fotografie. Lì, probabilmente,
può esserci un momento di caduta e di ripensamento, ma dura molto poco.
D.
– Cosa direbbe ad un giovane chirurgo che vuole intraprendere questa strada?
R.
– Ma questa è una passione … non dico innata, però non dev’essere spinta; dev’essere
qualcosa di interiore che deve nascere. E’ una chirurgia difficile, perché non siamo
specialisti: siamo "un chirurgo che deve saper lavorare per 20 chirurghi". Io dico
di coltivare un po’ la passione, di coltivare uno spirito – tra l’altro – umanitario,
perché non ci fermiamo solamente all’atto chirurgico o clinico: poi c’è qualcosa che
va oltre: è la solidarietà con queste persone. Quindi, è molto complesso.