2012-10-21 16:02:59

Gemelli: seminario sulla missione del chirurgo in contesti di guerra


Confrontarsi con emergenze umanitarie, operare in zone di conflitto e disagiate, è una delle prove più difficili per un medico, in particolare per un chirurgo. Diventa un dovere sapersi adattare a nuovi paradigmi e acquisire conoscenze e una formazione adeguata a fronteggiare situazioni estreme. È da questa particolare visione della missione del medico che nasce il seminario “Chirurgia di guerra e non: situazioni estreme” promosso dalla Scuola di Specializzazione in Chirurgia Generale dell’Università Cattolica, e svoltosi al Policlinico Gemelli di Roma. A portare la sua testimonianza Mauro Della Torre, chirurgo della Croce Rossa Internazionale di Ginevra, da anni impegnato su vari scenari di tensione. Salvatore Sabatino gli ha chiesto cosa spinga un chirurgo a fare una scelta così estrema:RealAudioMP3

R. – Sono scelte importanti. Sono scelte caratterizzate da situazioni in cui la chirurgia, lo stato di lavoro in Italia – o perlomeno nei nostri ospedali – ci porta a cambiare, per diversi motivi. Prima di tutto, c’è un’etica personale, un’etica professionale. Quando ci si rende conto, alla fine della giornata, che con i soldi che si spendono per un giorno di ospedalizzazione per un paziente in Italia si possono curare per mesi pazienti in situazioni estreme in condizioni con risorse limitate. Quindi, in linea di massima è un approccio sostanzialmente personale, non clinico-professionale.

D. – Si opera senza tecnologia, nella maggior parte dei casi, in emergenza, in scenari che sono pericolosi: insomma, una scelta coraggiosa...

R. – Si vuole riuscire a garantire un minimo di supporto sanitario a persone che non hanno niente, e generalmente – come Croce Rossa internazionale – lavoriamo in scenari di guerra, per cui le risorse sono limitate, i livelli di sicurezza sono molto bassi. Però, alla fine della giornata ci ricrediamo sempre di quello che facciamo guardando in faccia questi pazienti che altrimenti avrebbero un destino diverso.

D. – Lei ha operato in Palestina, in Uganda, in Etiopia, in Sudan: tutte situazioni estreme. Cosa le è rimasto impresso nella mente, di quelle esperienze?

R. – I ricordi sono molteplici, ognuno ha un evento caratteristico. Molte volte, purtroppo, rimangono degli incubi che in qualche modo vengono alleggeriti dal sorriso di un bambino o da un risultato positivo. Non ci pensiamo perché sostanzialmente siamo dei professionisti e come tali dobbiamo agire; molte volte siamo freddi al momento dell’intervento, dell’azione chirurgica. Il problema nasce con i ricordi, nei mesi successivi, magari guardando delle fotografie. Lì, probabilmente, può esserci un momento di caduta e di ripensamento, ma dura molto poco.

D. – Cosa direbbe ad un giovane chirurgo che vuole intraprendere questa strada?

R. – Ma questa è una passione … non dico innata, però non dev’essere spinta; dev’essere qualcosa di interiore che deve nascere. E’ una chirurgia difficile, perché non siamo specialisti: siamo "un chirurgo che deve saper lavorare per 20 chirurghi". Io dico di coltivare un po’ la passione, di coltivare uno spirito – tra l’altro – umanitario, perché non ci fermiamo solamente all’atto chirurgico o clinico: poi c’è qualcosa che va oltre: è la solidarietà con queste persone. Quindi, è molto complesso.







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