Al Gemelli, seminario sulla missione del chirurgo in contesti di guerra
Confrontarsi con emergenze umanitarie, operare in zone di conflitto e disagiate è
una delle prove più difficili per un medico, in particolar modo per un chirurgo. Diventa
un dovere sapersi adattare a nuovi paradigmi e acquisire conoscenze e una formazione
adeguata a fronteggiare situazioni estreme. È da questa particolare visione della
missione del medico che nasce il seminario “Chirurgia di guerra e non: situazioni
estreme” promosso dalla Scuola di Specializzazione in Chirurgia Generale dell’Università
Cattolica, e svoltosi nei giorni scorsi al Policlinico A. Gemelli di Roma. Il servizio
di Salvatore Sabatino:
LA GUERRA: SCEMPIO DELL’UMANITA’ – Gli
scempi di una guerra sono sotto gli occhi di tutti, non però nella sensibilità del
mondo, troppo spesso distratto da numeri e statistiche, da strategie diplomatiche
e da analisi politiche. Dietro ogni guerra ci sono, però, delle persone; di loro ci
si occupa poco, eppure sono i protagonisti assoluti di questa assurdità che si chiama
guerra. L’ultima in ordine di tempo, è quella che sta macchiando di sangue la Siria,
con il suo carico di migliaia di vittime innocenti. Un conflitto fratricida che lascia
sgomenti per la gravità dei fatti che coinvolgono innanzitutto i bambini, le donne,
gli anziani. Nessuno è al riparo dall'efferatezza; nessuno dovrebbe chiudere gli occhi
di fronte a tale ferocia. Eppure la comunità internazionale, quella che conta, resta
a guardare, inerme ed impotente. Tutto intorno il grido di dolore della gente, la
fuga dei disperati, la lotta della vita contro la morte. L’ultimo conflitto, in ordine
di tempo, che ripropone un copione andato in scena molte, troppe volte.
L’ESERCITO
DELLA PACE – In ogni guerra si respira la pace; quella di migliaia di operatori
che rischiano la propria vita in cambio di nulla. Un esercito invisibile che sconfigge
quotidianamente la violenza attraverso le loro azioni. Tra questi i chirurghi, “missionari
in sala operatoria”, li definiscono in molti. Medici che hanno scelto una strada difficile,
almeno agli occhi dei loro colleghi, ma non per loro; incontrandoli, parlando con
loro si percepisce che quello che hanno deciso di fare è dettato da un’etica tutt’altro
che scritta sui fogli di pergamena. La loro etica è tracciata nella strada della sofferenza
e nella voglia di riuscire a vedere il sorriso di un bambino nel buio della sofferenza.
UN CHIRURGO TRA LE BOMBE – Mauro Della Torre è un chirurgo che ama
definirsi normale. Niente di più, niente di meno. Nelle sue parole nessun trionfalismo,
nessun autocompiacimento. Eppure la sua storia passa attraverso Gaza, l’Uganda, l’Etiopia,
il Sudan. Appartiene alla Croce Rossa Internazionale di Ginevra e la sua chirurgia
si fa sotto una tenda, spesso tra le bombe che cascano a pochi metri da lui, sempre
tra i pianti e la disperazione di chi ha perso un proprio caro. Gli abbiamo chiesto
cosa spinge un chirurgo a fare una scelta così estrema, come quella di operare in
scenari di guerra. ”Sono scelte importanti – dice - scelte caratterizzate da situazioni
in cui la chirurgia, lo stato di lavoro in Italia – o perlomeno nei nostri ospedali
– ci porta a cambiare, per diversi motivi. Prima di tutto, c’è un’etica personale,
un’etica professionale. E’ così bello – aggiunge il chirurgo – quando si vede che,
ad esempio, alla fine della giornata, con i soldi che si spendono per un giorno di
ospedalizzazione per un paziente, in Italia, si possono curare per mesi pazienti in
situazioni estreme in condizioni con risorse limitate. Quindi, in linea di massima
è un approccio sostanzialmente personale, non clinico professionale”. Una visione,
la sua, pragmatica; quella di un medico che ha fatto della sua professione una missione
vera. Perché quando opera, lo fa senza tecnologia, in emergenza. “La mia professione
è riuscire a garantire un minimo di supporto sanitario a persone che non hanno niente,
e generalmente – come Croce Rossa internazionale – lavoriamo in scenari di guerra,
per cui le risorse sono limitate, i livelli di sicurezza sono molto bassi; però, alla
fine della giornata ci ricrediamo sempre di quello che facciamo guardando in faccia
questi pazienti che altrimenti avrebbero un destino diverso”. Quando gli chiediamo
cosa gli è rimasto impresso nella mente, delle sue esperienze sul campo, ci risponde
che i ricordi sono molteplici, belli e brutti. “Molte volte, purtroppo, rimangono
degli incubi che in qualche modo vengono alleggeriti dal sorriso di un bambino o da
un risultato positivo. Non ci pensiamo perché sostanzialmente siamo dei professionisti
e come tali dobbiamo agire. Molte volte siamo freddi al momento dell’intervento, dell’azione
chirurgica. Il problema nasce con i ricordi, nei mesi successivi, magari guardando
delle fotografie. Lì, probabilmente, può esserci un momento di caduta e di ripensamento,
ma dura molto poco”. Quel poco che basta per ripartire con più forza di prima. Perché
le emergenze non finiscono mai, così come le guerre. Nessun consiglio a chi, come
lui, ha deciso di intraprendere questa strada; “questa è una passione non dico innata,
però non dev’essere spinta; dev’essere qualcosa di interiore che deve nascere”. Quella
che opera è una chirurgia difficile, “perché non siamo specialisti: siamo un chirurgo
che deve saper lavorare per 20 chirurghi. Io dico di coltivare un po’ la passione,
di coltivare uno spirito – tra l’altro – umanitario, perché non ci fermiamo solamente
all’atto chirurgico o clinico: poi c’è qualcosa che va oltre, ed è la solidarietà
con queste persone”.
Intervista audio al Dott. Mauro Della Torre
LA
FORMAZIONE DEL CHIRURGO DI GUERRA –Sicuramente, il chirurgo di guerra deve espandere
le sue conoscenze e le sue capacità anche a territori del corpo che non è abituato
a trattare. Chi parte è un chirurgo generale che però deve sapere trattare anche fratture,
quindi traumi delle ossa e muscolari e vascolari, e deve sapere anche affrontare eventuali
traumi cranici penetranti. “Il seminario che organizzato nei giorni scorsi al Policlinico
Gemelli - spiega Maurizio Foco, ricercatore dell’Istituto di Clinica Chirurgica Generale
dell’Università Cattolica e promotore dell’evento formativo - è indirizzato in particolare
agli specializzandi di Chirurgia, Anestesiologia e Radiologia”. Perché chiaramente,
non si può partire senza avere un profilo completo. “Bisogna acquisirlo - spiega ancora
Maurizio Foco - e questo non è facile farlo in Italia, attualmente, perché non esistono
scuole di specializzazione che comprendano tutte queste specialità”. Un deficit che,
però, trova soluzione rivolgendosi a strutture già esperte come la Croce Rossa internazionale
di Ginevra, che “organizza seminari e corsi specifici - aggiunge Foco – che introducono
alla novità, per il chirurgo generale; e che poi prevedono un primo periodo – sempre
in ambiente ostile – in cui c’è un senior, un tutor, che va a colmare le eventuali
lacune che il chirurgo generale possa avere nelle specialità che non lo riguardano”.