In Libia, l’Assemblea nazionale ha incaricato l’ex diplomatico, Ali Zeidan, già costretto
all’esilio da Gheddafi, di formare il nuovo governo. La nomina di Zeidan arriva dopo
che il precedente premier designato, Mustafa Abushagur, aveva rinunciato all’incarico
all’inizio di questo mese. Davide Maggiore ha chiesto ad Arturo Varvelli,
ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale, quali siano gli
elementi di novità in questa nomina:
R. – Abushagur
era stato eletto principalmente con i voti dei Fratellanza musulmana e di indipendenti,
mentre questa volta Ali Zeidan sembra aver raccolto un consenso un po’ più trasversale.
Bisogna inoltre considerare che Abushagur aveva avuto delle difficoltà per la ferma
opposizione del Partito di Jibril, vincitore dalle elezioni del luglio scorso. Ci
sono i presupposti per cui una personalità terza, tra i due schieramenti, possa raccogliere
adesso i consensi: naturalmente, però, deve essere capace di formare un governo rappresentativo.
Questa è stata la sfida che non ha saputo vincere Abushagur.
D. – Quindi,
la nomina di un esecutivo, in questo momento, appare più semplice. Ma come cambiano
le alleanze e i rapporti di forza all’interno del complesso scenario libico?
R.
– Capire le maggioranze, all’interno del parlamento libico, è una missione impossibile.
Il sito Internet del Congresso generale libico non dichiara apertamente chi sono tutti
i rappresentanti. Siamo in una delle prime fasi della democrazia e anche questa piccola
cosa fa capire quanto sia difficoltoso il percorso democratico. All’interno di questo
parlamento, hanno ancora una grande rilevanza, naturalmente, i localismi. Il sistema
elettorale ha permesso l’emergere di rappresentanti che sono soprattutto rappresentanti
locali: con questi, si dovrà confrontare il nuovo primo ministro, cercando di raccoglierne
la maggioranza assoluta. E questo è un compito molto, molto difficile.
D.
– In tale contesto, qual è ancora il ruolo delle milizie che ufficialmente sono state
abolite da un ordine delle autorità, dopo l’attacco costato la vita al rappresentante
diplomatico americano Stevens?
R. – L’autorità centrale libica, lo Stato libico,
non ha ancora il monopolio dell’uso della forza. Quando non si ha il monopolio dell’uso
della forza, non esiste uno Stato di diritto come noi lo conosciamo. In effetti, le
milizie controllano ancora larga parte del territorio libico. Alcune di queste sono
state cooptate all’interno di un esercito delle forze nazionali della sicurezza libica:
è un passaggio molto difficoltoso e abbiamo visto cosa ha comportato, ad esempio in
termini di sicurezza, anche per l’assassino dell’ambasciatore americano. Ce ne sono
altre che, invece, non si sono ancora – diciamo – uniformate, che non sono ancora
entrate a far parte di queste forze. Quindi, è una situazione precaria che deve essere
risolta e che un governo, che deve essere formato nel più breve tempo possibile, potrebbe
risolvere perché ha una maggiore legittimità.
D. – E’ forse troppo presto
per dire come questa nuova nomina cambi l’allineamento internazionale della Libia
e l’atteggiamento della comunità internazionale verso il Paese?
R. – L’attuale
primo ministro nominato ha ottime relazioni con l’Europa, ha ottime relazioni con
gli Stati Uniti ed è un attivista dei diritti civili. Ci sono quindi tutti i presupposti
perché rimangano ottime relazioni con l’Occidente, ma è ancora molto presto. C’è stata
una sorta di involuzione in questi mesi: la Libia ha rischiato l’implosione e quindi
è stata tutta rivolta all’interno. Sappiamo, però, che ha necessità di vendere il
proprio petrolio - che è la prima risorsa del Paese - e che questo necessita naturalmente
di buone relazioni con i Paesi compratori.