Sinodo. Mons. Warduni: nei Paesi musulmani si può evangelizzare solo con la testimonianza
Al Sinodo è risuonato anche il grido dei cristiani dell’Iraq. In questo Paese, provato
da anni di guerra, la piccola comunità cattolica offre la sua silenziosa testimonianza
di carità, come unica forma possibile di evangelizzazione. Al microfono di Paolo
Ondarza sentiamo il vescovo ausiliare caldeo di Bagdad Shlemon Warduni
che partecipa in Vaticano ai lavori sinodali:
R. - Vengo con
grande entusiasmo, con grande letizia. La Chiesa è chiamata sempre a rinnovarsi. Come
diceva Papa Giovanni XXIII, all’apertura del Concilio Vaticano II: “La Chiesa deve
scuotere la polvere accumulata”. Questo Sinodo muove tutte le forze della Chiesa perché
vogliamo arrivare a compiere ciò che Cristo vuole da noi: “Andate e predicate. Fate
miei discepoli tutti gli uomini della Terra”. Per questo motivo noi dobbiamo riunirci
e chiedere la grazia dello Spirito Santo, per poter conoscere ciò che Lui dice, Lui
vuole, non ciò che vogliamo noi. La nostra testimonianza influisce sulle persone quando
vedono le nostre opere.
D. - Qui al Sinodo è rappresentata la Chiesa universale.
Ma nello specifico della Chiesa che lei rappresenta, che cosa vuol dire parlare di
nuova evangelizzazione?
R. - Nei Paesi musulmani non si può quasi parlare dell’evangelizzazione,
perché la gente pensa che la propria religione sia la prima tra tutte le religioni.
Non è consentito convertirsi al cristianesimo, quindi non si può evangelizzare. Tuttavia
per noi evangelizzare è una questione vitale. Vivere ciò che il Signore vuole da noi,
testimoniarlo con la nostra vita, è già una predica, è una nuova evangelizzazione.
Come vivevano i nostri cristiani all’inizio? Noi dobbiamo tornare a quella vita, per
poter testimoniare la fede agli altri.
D. - Il Papa ha detto: “La Fede deve
albergare nel cuore, ma poi deve trovare spazio nella bocca”, quindi essere proclamata.
La testimonianza dei cristiani in Iraq può offrire un esempio di coraggio alla Chiesa
Universale?
R. - Certamente è una grande consolazione per noi il fatto che
i nostri cristiani vivano la loro vita come Cristo ha insegnato. Dobbiamo predicare
il Vangelo dai tetti. Però dobbiamo fare questo con grande sapienza, con grande saggezza,
per non spingere gli altri a dire: “Vogliono farci cristiani”. No, occorre saper dire
le parole giuste al momento giusto. Per esempio, quando organizziamo un raduno nelle
nostre chiese annunciamo che Dio è amore. Loro apprezzano la nostra esortazione ad
amarci gli uni gli altri, a vivere in comunione. Il nostro comportamento, le nostre
attività caritative, li spingono a dire: “Allora è questo il cristianesimo! Perché
noi dobbiamo andare contro il loro Dio mentre loro ci fanno del bene e ci esortano
ad amarci gli uni gli altri?”.
D. - Qual è il suo augurio per questo Sinodo
sulla nuova evangelizzazione?
R. - Il mio augurio è che tutte le forze della
Chiesa si uniscano, facciano presente al mondo che il cristianesimo non arretra di
fronte alle nuove sfide. Il cristianesimo va avanti nel Signore: Lui ci ha detto:
“Non abbiate paura!". Dunque, predichiamo a tutte le genti con la nostra vita, anche
a costo di perderla.
Senza donne non ci sarà la nuova evangelizzazione. Il
riconoscimento della presenza femminile all’interno della comunità ecclesiale è stato
rimarcato nei giorni scorsi al Sinodo. Impegnata sul fronte dell'annuncio è suor
Luisa Ciupa, vicepresidente della Commissione per la catechesi della Chiesa greco-cattolica
ucraina. Paolo Ondarza l'ha intervistata:
R. - Prima di
tutto noi evangelizzatori, catechisti, oggi dobbiamo predicare la Buona Novella e
portarla a tutte le persone che Dio ci dona, ci fa incontrare; dobbiamo portare loro
il Cristo vivente perché il nostro non sia solo un annuncio di un evento storico,
ma di un evento attuale, una vita, che è vita oggi.
D. - La Catechesi deve
nascere da un incontro con il Risorto nella propria esperienza di vita…
R.
- Un incontro personale, perché la Catechesi in sé non è solo una trasmissione della
Dottrina ma è una relazione: deve proporre una persona viva: Cristo. Oggi siamo nell’epoca
dell’immagine, della tecnologia. Dobbiamo usare questi nuovi mezzi di comunicazione
per l’evangelizzazione.
D. - Secondo lei, come mai oggi c’è una certa pavidità,
una certa timidezza nel testimoniare? Si pensa che la fede - tutto sommato – debba
essere relegata nell’ambito privato…
R. - Questa è una delle sfide. Oggi viviamo
la tentazione di tenere fuori dal dibattito pubblico tutto quello che è sacro. Fare
un gesto, un segno della Croce passando davanti a un tempio, a una chiesa, è una testimonianza
della nostra fede, la manifestazione che crediamo in Cristo che è nato per me, è morto,
è stato crocifisso, ma è risorto e vive. E c’è anche un’altra tentazione, quella di
dire: “Non importa oggi se tu appartieni a una comunità confessionale o ad un'altra,
che tu sia cattolico, o altro. Dio è uno per tutti, è uguale per tutti. A volte non
lo chiamano neanche “Dio” ma, un’entità superiore, “una forza dall’alto”. Queste sono
cose che vanno sradicate dal nostro modo di pensare. Ecco allora che la catechesi
deve venire incontro per aiutare a conoscere più in profondità Cristo e vivere in
Lui.