2012-10-11 16:27:07

La terra può nutrire tutti, basta non rubarla. Il Cesvi punta il dito contro i biocarburanti


Burundi, Eritrea e Haiti sono i Paesi con metà della popolazione affetta da denutrizione, e sono in cima alla classifica dei luoghi dove l’indice di fame è “allarmante o estremamente preoccupante”. La sicurezza alimentare dei più poveri è minacciata anche dall’uso non sostenibile delle terre, dell’acqua e dell’energia. Lo spiega il rapporto 2012 sull'Indice globale della fame presentato oggi a Milano dall'ong Cesvi, in collaborazione con Link 2007, Ispi e Comune di Milano. Negli ultimi 10 anni, si legge, la superficie delle terre destinate alle colture per biocarburanti e fibre tessili è stata di sette volte quella dell’Italia, a scapito della produzione di cibo. La Malesia è il Paese in via di sviluppo che ha la maggiore quantità di terra affittata dalle grande società internazionali di tutto il mondo. Francesca Sabatinelli ha intervistato Stefano Piziali, del Cesvi, curatore dell’edizione italiana del Rapporto:RealAudioMP3

R. – L’attuale modello di produzione agricolo non è adeguato per produrre al meglio risorse per l’alimentazione, in quanto la terra è sfruttata in modo eccessivo. Una parte cospicua del suolo è sfruttata per produrre biocarburanti, che non sono poi necessari alla nostra alimentazione; la produzione dell’acqua per l’agricoltura è inefficiente; mancano conoscenze e produzione di queste conoscenze nel mondo africano, laddove l’impatto può essere sicuramente più significativo per cambiare gli stili di vita e la nutrizione di questi Paesi.

D. – Quali soluzioni alternative sono contenute quindi nel Rapporto?

R. – In particolare, il Rapporto propone uno scenario che si basa sulla diffusione di conoscenze nel mondo africano e nel mondo asiatico e, soprattutto, sulla revisione di tutti quei parametri negativi, che affliggono lo sfruttamento delle risorse per l’alimentazione. Pensiamo semplicemente al suolo: oggi in Africa molte terre sono sottratte ai contadini che non possono quindi più usarle per la loro alimentazione, per produrre alcuni prodotti per l’esportazione, e per integrare il loro reddito, perché queste terre vengono affittate, a volte anche per 99 anni, da società internazionali, con base in Cina, in India, in Medio Oriente e anche in Europa, che producono in queste terre biocarburanti, destinati a sostituire il petrolio per far funzionare le nostre macchine. Quello che noi stiamo dicendo è che possiamo produrre energia in modo diverso, sfruttando per esempio i biocarburanti di seconda generazione ovvero quelli prodotti dagli scarti della produzione agricola, e non sfruttare magari terre, che vorrebbero essere dedicate alla produzione di cereali da destinare all’alimentazione.

D. – Perché ci si è soffermati sulla produzione di colture per biocarburanti? E’ considerato forse il principale fattore critico?

R. – E’ uno dei fattori critici, perché dobbiamo pensare che tutti i fattori critici sono tra loro collegati. Oggi produrre energia è fondamentale per lo sviluppo agricolo, perché l’agricoltura richiede energia. D’altro canto, la produzione di energia non è possibile senza lo sfruttamento dell’acqua. L’acqua stessa è fondamentale per l’agricoltura. Ci siamo soffermati sui biocarburanti, perché è uno degli elementi su cui facilmente, già oggi, in Europa, potremmo intervenire. Non dimentichiamo che oggi la rincorsa ai biocarburanti è determinata anche dal fatto che la stessa Unione Europea incentiva la produzione di biocarburanti.

D. – Come conciliare però l’enorme interesse economico che c’è dietro a questo uso della terra e l’irrinunciabile diritto dei popoli a sfamarsi?

R. – Si stanno facendo degli sforzi. Ho citato prima l’Unione Europea. La Commissione Europea si è resa conto che sta esagerando con questi mandati per la produzione dei biocarburanti di prima generazione, cioè realizzati per esempio con il mais, per cui sta decidendo in queste settimane di sostenere la produzione di biocarburanti alternativi, che vengano realizzati con gli scarti e con i rifiuti. Questo è un primo segnale positivo. Un secondo segnale positivo ci viene dalle Nazioni Unite, dove il Comitato per la Sicurezza Alimentare ha varato delle linee guida volontarie, però importanti, rivolte ai governi, rivolte alle società private, perché nella gestione dei titoli di proprietà della terra, delle foreste, della pesca, possono tenere meglio in considerazione i diritti dei piccoli proprietari e dei piccoli produttori. Tutto ciò, se adottato, ci permetterà di affrontare il problema di una maggiore produzione, però senza depauperare le risorse che abbiamo e soprattutto rispettando anche i diritti storici di piccoli produttori contadini in Africa e in Asia. Quello che noi diciamo nel nostro Rapporto è questo: oltre al problema della produzione c’è un problema di diritti rispetto alla terra, di compartecipazione dei più poveri alle scelte che li riguardano e c’è anche un problema di modelli energetici e modelli economici, che soggiacciono a queste scelte. Quello che vogliamo ricordare, con l’Indice globale della fame, è che la fame è un problema multidimensionale, non ci può essere una scorciatoia per risolvere questa questione.







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