La terra può nutrire tutti, basta non rubarla. Il Cesvi punta il dito contro i biocarburanti
Burundi, Eritrea e Haiti sono i Paesi con metà della popolazione affetta da denutrizione,
e sono in cima alla classifica dei luoghi dove l’indice di fame è “allarmante o estremamente
preoccupante”. La sicurezza alimentare dei più poveri è minacciata anche dall’uso
non sostenibile delle terre, dell’acqua e dell’energia. Lo spiega il rapporto 2012
sull'Indice globale della fame presentato oggi a Milano dall'ong Cesvi, in collaborazione
con Link 2007, Ispi e Comune di Milano. Negli ultimi 10 anni, si legge, la superficie
delle terre destinate alle colture per biocarburanti e fibre tessili è stata di sette
volte quella dell’Italia, a scapito della produzione di cibo. La Malesia è il Paese
in via di sviluppo che ha la maggiore quantità di terra affittata dalle grande società
internazionali di tutto il mondo. FrancescaSabatinelli ha intervistato
StefanoPiziali, del Cesvi, curatore dell’edizione italiana del Rapporto:
R. – L’attuale
modello di produzione agricolo non è adeguato per produrre al meglio risorse per l’alimentazione,
in quanto la terra è sfruttata in modo eccessivo. Una parte cospicua del suolo è sfruttata
per produrre biocarburanti, che non sono poi necessari alla nostra alimentazione;
la produzione dell’acqua per l’agricoltura è inefficiente; mancano conoscenze e produzione
di queste conoscenze nel mondo africano, laddove l’impatto può essere sicuramente
più significativo per cambiare gli stili di vita e la nutrizione di questi Paesi.
D.
– Quali soluzioni alternative sono contenute quindi nel Rapporto?
R. – In particolare,
il Rapporto propone uno scenario che si basa sulla diffusione di conoscenze nel mondo
africano e nel mondo asiatico e, soprattutto, sulla revisione di tutti quei parametri
negativi, che affliggono lo sfruttamento delle risorse per l’alimentazione. Pensiamo
semplicemente al suolo: oggi in Africa molte terre sono sottratte ai contadini che
non possono quindi più usarle per la loro alimentazione, per produrre alcuni prodotti
per l’esportazione, e per integrare il loro reddito, perché queste terre vengono affittate,
a volte anche per 99 anni, da società internazionali, con base in Cina, in India,
in Medio Oriente e anche in Europa, che producono in queste terre biocarburanti, destinati
a sostituire il petrolio per far funzionare le nostre macchine. Quello che noi stiamo
dicendo è che possiamo produrre energia in modo diverso, sfruttando per esempio i
biocarburanti di seconda generazione ovvero quelli prodotti dagli scarti della produzione
agricola, e non sfruttare magari terre, che vorrebbero essere dedicate alla produzione
di cereali da destinare all’alimentazione.
D. – Perché ci si è soffermati sulla
produzione di colture per biocarburanti? E’ considerato forse il principale fattore
critico?
R. – E’ uno dei fattori critici, perché dobbiamo pensare che tutti
i fattori critici sono tra loro collegati. Oggi produrre energia è fondamentale per
lo sviluppo agricolo, perché l’agricoltura richiede energia. D’altro canto, la produzione
di energia non è possibile senza lo sfruttamento dell’acqua. L’acqua stessa è fondamentale
per l’agricoltura. Ci siamo soffermati sui biocarburanti, perché è uno degli elementi
su cui facilmente, già oggi, in Europa, potremmo intervenire. Non dimentichiamo che
oggi la rincorsa ai biocarburanti è determinata anche dal fatto che la stessa Unione
Europea incentiva la produzione di biocarburanti.
D. – Come conciliare però
l’enorme interesse economico che c’è dietro a questo uso della terra e l’irrinunciabile
diritto dei popoli a sfamarsi?
R. – Si stanno facendo degli sforzi. Ho citato
prima l’Unione Europea. La Commissione Europea si è resa conto che sta esagerando
con questi mandati per la produzione dei biocarburanti di prima generazione, cioè
realizzati per esempio con il mais, per cui sta decidendo in queste settimane di sostenere
la produzione di biocarburanti alternativi, che vengano realizzati con gli scarti
e con i rifiuti. Questo è un primo segnale positivo. Un secondo segnale positivo ci
viene dalle Nazioni Unite, dove il Comitato per la Sicurezza Alimentare ha varato
delle linee guida volontarie, però importanti, rivolte ai governi, rivolte alle società
private, perché nella gestione dei titoli di proprietà della terra, delle foreste,
della pesca, possono tenere meglio in considerazione i diritti dei piccoli proprietari
e dei piccoli produttori. Tutto ciò, se adottato, ci permetterà di affrontare il problema
di una maggiore produzione, però senza depauperare le risorse che abbiamo e soprattutto
rispettando anche i diritti storici di piccoli produttori contadini in Africa e in
Asia. Quello che noi diciamo nel nostro Rapporto è questo: oltre al problema della
produzione c’è un problema di diritti rispetto alla terra, di compartecipazione dei
più poveri alle scelte che li riguardano e c’è anche un problema di modelli energetici
e modelli economici, che soggiacciono a queste scelte. Quello che vogliamo ricordare,
con l’Indice globale della fame, è che la fame è un problema multidimensionale, non
ci può essere una scorciatoia per risolvere questa questione.