2012-10-10 14:54:27

Ancora tensioni Siria-Turchia. Ankara risponderà "con più durezza" se non cesseranno i colpi di mortaio


In Siria le forze governative hanno annunciato di aver iniziato un’offensiva nella provincia di Homs e secondo l’opposizione ieri le vittime degli scontri sono state almeno 170 in tutto il Paese: tra loro anche un cameraman della televisione statale a Deyr az Zor. Ad Aleppo si è combattuto anche nel complesso della grande moschea cittadina. Intanto il segretario alla Difesa americano Leon Panetta ha lanciato l’allarme sulle armi chimiche, mentre proseguono le tensioni tra Damasco e la Turchia. E secondo quanto riferisce la rete al Arabiya citando l'agenzia Anadolu, caccia turchi avrebbero intercettato un volo di linea siriano e lo avrebbero costretto ad atterrare all'aeroporto di Ankara. Il servizio di Davide Maggiore:RealAudioMP3

Le armi non convenzionali in Siria poterebbero finire “nelle mani sbagliate”, ha spiegato Panetta, e per questo gli Stati Uniti stanno “monitorando” la situazione. Washington, ha aggiunto il segretario alla Difesa, sta dando sostegno all’opposizione, ma senza forniture di armi. Panetta ha confermato anche la notizia riportata dalla stampa statunitense secondo cui “da tempo” un gruppo di soldati americani si trova in Giordania. I militari sono nel Paese per cooperare con le forze locali. Il capo di stato maggiore della Turchia, Necdet Ozel, ha invece minacciato una risposta militare più violenta ad Assad, se continueranno i tiri di mortaio dalla Siria verso il territorio turco, a cui Ankara aveva già reagito nei giorni scorsi. Sul fronte interno, le forze lealiste impegnate nel tentativo di riconquistare la città di Homs si sono scontrate con i ribelli anche nelle località di Hula e Rastan. Il governo siriano ha rifiutato la richiesta di un cessate il fuoco unilaterale avanzata ieri dal segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, che ha condannato anche la serie di attacchi terroristici avvenuti a Damasco: l’ultimo, ieri, ha colpito un edificio dell’aeronautica.

La drammatica situazione siriana vede coinvolti anche migliaia di profughi. Fra loro, anche numerosi cittadini iracheni che avevano ricevuto asilo a Damasco dopo la guerra del 2003 e che si trovano dunque, per la seconda volta in pochi anni, nella condizione di sfollati. Davide Maggiore ha parlato della loro situazione con Rosette Hechaïme, coordinatrice regionale di Caritas per il Nord Africa e il Medio Oriente:RealAudioMP3

R. – Il numero dei rifugiati iracheni in Siria ha raggiunto il milione, e anche di più, durante questi anni. Oggi, evidentemente il loro numero è diminuito, in quanto parecchi di loro sono stati ospitati nei Paesi occidentali. Soprattutto, da quando è scoppiata la crisi in Siria, si riscontra un flusso molto importante di rifugiati iracheni verso il Libano, la Turchia e meno verso la Giordania. Questi rifugiati provengono da varie parte dell’Iraq: sono sunniti, sciiti ed anche cristiani. Si tratta di famiglie, di individui, di gente che ha lasciato tutto e che andando nei Paesi intorno ha cercato sia di trovare una vita più tranquilla sia di avere un punto di appoggio prima di chiedere asilo in altri Paesi.

D. – Quali erano le condizioni di questi rifugiati, una volta arrivati in Siria?

R. – La Siria, essendo un Paese limitrofo, ha accolto gli iracheni come ospiti. In un primo momento, non ci voleva nemmeno un visto per entrare in Siria. Poi, con il tempo, il governo siriano si è premunito e ci sono voluti dei visti, perché questo afflusso cominciava a pesare. Cosa facevano gli iracheni in Siria? Tante volte si trattava di gente che non immaginava quanto tempo sarebbe rimasta. Qualcuno avendo venduto tutto, per alcuni mesi aveva di che sopravvivere, ma presto doveva cercare un lavoro. E a quel punto non era una cosa sempre facile, perché non avendo un permesso di soggiorno – avevano documenti che non permettevano di lavorare – cresceva il numero di gente che lavorava in nero. Chi è rimasto più di uno, due o tre anni ha conosciuto periodi molto difficili, non vivendo una vita molto dignitosa.

D. – Sappiamo che, oltre a cercare rifugio nei Paesi vicini, molte di queste persone stanno rientrando nel loro Paese di origine. In Iraq ci sono dei rischi per loro?

R. – Il grande rischio è che di nuovo si debba ricominciare tutto, perché chi è partito ha venduto tutto – beni, proprietà, case – avendo bisogno di queste somme. Quindi, adesso si tratta prima di tutto di identificare dove tornare e poi cosa fare, dove inserirsi. E questa non è una cosa facile. Si parla adesso di decine di migliaia di persone che tornano.

D. – Abbiamo citato anche la Turchia tra i Paesi che ospitano i rifugiati iracheni. La cronaca di queste ore ci dice che il conflitto rischia di allargarsi. Quali potrebbero essere le conseguenze dal punto di vista umanitario?

R. – Questo è un futuro che veramente vorremmo non arrivasse: la possibilità che si allarghi il conflitto. Sappiamo che la Turchia in passato, durante la Guerra del Golfo e in tutti questi anni, ha avuto parecchi flussi di rifugiati, che venivano dall’Iraq. Quello che cambia è il fatto che questa popolazione sia ancora una volta sradicata, che ancora una volta debba rifare tutte le pratiche, chiedere asilo, ricominciare da capo. E’ gente che ormai è anche ferita psicologicamente. Quale sarà il futuro? E’ una grande domanda, che penso tutti noi dobbiamo farci: come fare perché questo ennesimo esilio non duri anni.







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