Libia ancora nel caos. Scontri al sud, il governo torna al premier ad internim Al-Kib
Non si stabilizza la situazione in Libia. Il Paese torna al premier ad interim, Abdulrahim
al-Kib, dopo le dimissioni di Mustafa Abushagur e l’ennesima bocciatura del suo Esecutivo.
In questo scenario, l'Assemblea nazionale libica, ovvero il parlamento, ha approvato
lunedì un meccanismo per la designazione del nuovo premier che si basa sul consenso
tra gruppi parlamentari, scartando il sistema del voto in aula. In sostanza, ora saranno
scelti uno o più candidati per la premiership attraverso le consultazioni tra i blocchi
politici e parlamentari, ma modalità e tempi per eleggere il nuovo capo dell'esecutivo
in base la nuovo meccanismo sono - secondo fonti locali - ancora in discussione.
Intanto, sul terreno continuano le tensioni e gli scontri nel sud della Libia. Il
servizio di Massimiliano Menichetti:
La Libia fatica
a trovare un’identità dopo la caduta di Gheddafi. Per la seconda volta in pochi giorni,
è stata respinta la lista dei ministri presentata dal premier designato, Mustafa Abushagur,
anche esso dimessosi. Ora, il governo del Paese è affidato al premier ad interim,
Abdulrahim al-Kib, che svolgerà le sue funzioni fino alla formazione del nuovo esecutivo.
Intanto, si profila un accordo tra l'Alleanza liberale e i Fratelli musulmani. E proprio
questa intesa sarebbe all'origine della doppia bocciatura della lista dei ministri
proposta da Bushagur, che non avrebbe tenuto nel giusto conto le due formazioni politiche
più forti, uscite dalle elezioni libiche dopo quaranta anni di dittatura.
Sullo
sfondo, ma neanche tanto, rimane la questione dell’attacco, a settembre, alla sede
diplomatica Usa di Bengasi in cui hanno perso la vita l'ambasciatore Chris Stevens
e altri tre americani. L’ex premier Abushagur ha parlato di un possibile "intervento
militare straniero" che porterebbe la Libia “nel baratro”. Washington avrebbe approntato,
infatti, una "lista di obiettivi", tra cui individui collegati all'assalto di Bengasi,
da colpire con i droni o blitz a terra delle forze speciali, dopo il via libera, però,
del presidente, Barack Obama. Intanto, le accuse nei confronti dei due tunisini arrestati
in Turchia, sospettati di essere coinvolti nell’attacco, sarebbero "inconsistenti",
tanto che sarebbero stati già rimpatriati.
Rimane complessa la situazione nel
sud del Paese, dove la pace è ancora lontana, anche per la mancanza di un vero esercito
nazionale. Qui, si resgistra ancora il forte attivismo degli ex fedelissimi di Gheddafi,
di mercenari e jihadisti che continuano nel traffico di armi e droga.
Difficile
la situazione anche a Bani Walid, dove proseguono gli scontri con morti e feriti:
i rivoluzionari vogliono vendicare la morte di Omran Shaban, il giovane che aveva
individuato Gheddafi a Sirte, morto in Francia in seguito alle torture subite proprio
a Bani Walid, dove era stato sequestrato a luglio.
Sulla situazione in Libia
abbiamo raccolto l'analisi del prof. Alberto Ventura, docente di Storia dei
Paesi islamici all’Università della Calabria:
R. - La rivoluzione
che ha portato alla caduta del vecchio regime - come in altri Paesi arabi confinanti
- ha creato delle situazioni molto fluide. Una delle specificità della Libia rispetto
ai Paesi vicini è che i partiti islamici non hanno avuto quel successo che invece
hanno registrato in Egitto e in Tunisia. La logica tribale, quella interna dei rapporti
anche sociali e culturali che ci sono in Libia, impedisce un’affermazione forte delle
tendenze rigoriste, dell’islam ideologizzato. Per di più, in Libia c’è un’altra cosa
che non è stata molto rilevata dai mezzi d’informazione: i movimenti più radicali
hanno cominciato ad attuare una politica piuttosto aggressiva verso la devozione popolare,
che però costituisce uno degli elementi essenziali della cultura musulmana. Questa
situazione ha creato fortissime reazioni in Libia e a testimonianza di ciò c'è il
fatto che gruppi di libici si sono sollevati contro Ansar al-Islam e tutti i movimenti
più violenti: li hanno addirittura scacciati dopo i fatti dell’11 settembre scorso,
quando le violenze avevano portato anche alla morte dell’ambasciatore americano a
Bengasi. Insomma, in Libia c’è un clima molto diverso nei confronti del fondamentalismo.
Quindi, anche un accordo politico tra un governo che dovrebbe essere ancora di transizione,
ma già più stabile del precedente, con la componente dei Fratelli Musulmani, non viene
visto di buon occhio.
D. - Secondo lei, sull’instabilità politica incidono
anche gli scontri che rimangono nel sud del Paese, dove ci sono i fedelissimi di Gheddafi,
Jihadisti…
R. - Si tratta di ultime resistenze in cui entrano anche tanti altri
elementi: non c’è più solo la politica nazionale, ci sono anche gli incroci, le appartenenze
di questi miliziani che provenivano talvolta da altri Paesi… Insomma, è inevitabile
che dopo eventi così traumatici come quello della rivoluzione libica, possano rimanere
dei residui di turbolenze. Però, non vedrei in questo una causa dell’instabilità politic.
Questa, secondo me, dipende dal fatto che non si riesce a trovare un momento di intesa
per la costruzione di una nuova identità nazionale.
D. - Cosa serve per creare
questa coesione, questa identità?
R. - In Libia, per anni sotto il regime di
Gheddafi si riusciva a tenere insieme - più o meno con la forza - identità fondamentalmente
piuttosto diverse. Con la caduta di Gheddafi, queste identità reclamano nuovamente
una partecipazione maggiore. Non credo si possa arrivare a una transizione più o meno
comunemente accettata, se non si tiene conto delle molteplici realtà che la Libia
ha mantenuto nel tempo e che in qualche modo devono essere soddisfatte.
D.
- C’è una situazione in evoluzione…
R. - La situazione è sicuramente in evoluzione
in Libia come altrove. Purtroppo, però, esistono - in Libia forse più che altrove
- dei condizionamenti di carattere internazionale: ci sono degli interessi esterni
che potrebbero indirizzare e condizionare anche pesantemente questo futuro, che è
ancora tutto da costruire.
D. - E questo è il rischio…
R. - È un rischio,
perché le transizioni democratiche di questi Paesi non si possono fare da un giorno
all’altro. Non possono essere importate meccanicamente. Tanti sono gli interessi in
gioco, interni ed internazionali. Queste costruzioni avvengono talvolta in maniera
forzosa, artificiosa, e il rischio è che ciò che in un primo momento possa sembrare
una soluzione, si riveli poi una via effimera con reazioni che non è possibile prevedere.