Ancora proteste contro il film e le vignette su Maometto. Vittime in Libia per gli
scontri con gli islamici
All’indomani delle proteste contro le vignette e il film su Maometto, in Nigeria migliaia
di persone hanno manifestato a Kano, città a maggioranza musulmana. Una trentina le
vittime di ieri in Pakistan dove sono state attaccate alcune case di un quartiere
cristiano e una chiesa luterana. Violenze si sono verificate pure in Libia, a Bengasi,
con quattro morti e 40 feriti negli scontri seguiti alla manifestazione in omaggio
dell’ambasciatore statunitense, ucciso lo scorso 11 settembre. Un’escalation legata
alle questioni interne libiche: sostiene Arturo Varvelli, ricercatore dell'Istituto
Studi di Politica Internazionale ed esperto di Libia. L’intervista è di Benedetta
Capelli:
R. – Il venerdì
crea il pretesto per andare in piazza e questa questione del video e delle vignette
su Maometto ha creato un pretesto. Però le cause di questi atti che si stanno verificando
in Libia, secondo me, sono molto interne al quadro libico; sono determinate dal fatto
che i salafiti stanno facendo una vera e propria escalation di azioni nei confronti
dell’autorità centrale e nei confronti delle altre forze. Bisogna pensare che alle
elezioni che si sono tenute il 7 luglio scorso i salafiti non hanno avuto alcun consenso
all’interno del Paese. Quindi pur essendo frange minoritarie hanno scelto la via armata
e territorialmente tengono il controllo di alcune zone del Paese, soprattutto in Cirenaica.
Il grosso problema è questo.
D. – Qual è la reale situazione oggi, in particolar
modo a Bengasi che è uno dei cuori più caldi della Libia?
R. - Io penso che
i salafiti costituiscano una minoranza e anche gli estremismi. Il problema è che dove
non c’è uno Stato che non ha il monopolio dell’uso della forza, l’autorità centrale
è molto debole, che soluzione può avere se non in qualche maniera cercare di coptare
queste forze all’interno di un esercito nazionale? Questo tentativo è stato fatto
nei mesi scorsi ed è fallito, ne vediamo adesso le conseguenze. Pensiamo che non esiste
un esercito nazionale: chi li può affrontare, chi garantisce la sicurezza del Paese?
Questa è la vera questione. Poi, nella situazione di caos può proliferare anche il
proselitismo a favore dell’islam, bisogna capire poi quale interpretazione si dà all’Islam
in politica. Noi vediamo che ci sono forze che sono totalmente differenti. Esiste
un islam che noi possiamo considerare quasi repubblicano, costituzionalista, interpretato
in questi mesi dalla Fratellanza musulmana e da altri partiti di matrice più laica,
più liberale. Il problema sono le frange che rimangono fuori che fanno una corsa alla
leadership dell’islam e questa corsa viene fatta con questi strumenti, anche di violenza.
D.
– Alla luce di quanto ci ha detto, come si inserisce allora quell’attacco avvenuto
l’11 settembre nel quale ha perso la vita l’ambasciatore statunitense: perché quello
come obiettivo?
R. – Non sono ancora chiare le responsabilità. Io penso che
le responsabilità vadano rintracciate all’interno dei gruppi salafiti libici come
Ansar Al Sharia, questa milizia islamica. Naturalmente i salafiti in qualche maniera
si stanno coordinando tra di loro a livello interstatale. C’è anche chi ha ventilato
l’ipotesi per cui dietro queste azioni dei salafiti ci sarebbero spinte di altro tipo,
collegamenti con al Qaeda o con altri Stati esteri. Vi è quasi una sorta di convergenza
di interessi in questo momento storico a far sì che la primavera araba sia un fallimento.
Naturalmente al Qaeda ne ha interesse ma anche gruppi salafiti o parte dei essi -
perché sono rimasti un po’ fuori dai giochi di potere -, tutto sommato pure altri
Paesi come le monarchie del Golfo possono essere preoccupati dall’emergere di un islam
che è molto diverso da quello che propongono le monarchie assolute del Golfo; pensiamo
in Arabia Saudita, Emirati, Qatar, etc. Dimostrare che la primavera araba è un fallimento
dimostrerebbe che l’unico islam possibile è il loro, in pratica.