"Occupy Wall Street" torna a New York: 150 arresti
E’ finita con 150 arresti la manifestazione del movimento “Occupy Wall Street”, che
ieri a New York ha celebrato il primo anniversario dal suo esordio. Almeno 600 i manifestanti
che si sono riuniti davanti alla Borsa, cercando di entrarvi e di rallentare le contrattazioni.
Ma oggi cosa è rimasto di quel movimento? Salvatore Sabatino lo ha chiesto
a Nico Perrone, docente di Storia americana presso l’Università di Bari:
R. - Normalmente
questi movimenti sono delle “ventate”, magari delle ventate di successo nel momento
in cui si fanno, ma tendono poi ad esaurirsi rapidamente. Questo, invece, resiste.
D.
- Quanto ha inciso sulla società americana e quanto potrebbe incidere oggi sulla campagna
elettorale per le presidenziali, che si sta giocando proprio sul filo della crisi
economica?
R. - Sul sistema americano, debbo dire francamente che ho l’impressione
che abbia inciso poco. Sulla campagna elettorale, invece, potrebbe incidere di più,
perché si tratta di frange che perlomeno uno dei due contendenti - Obama, in modo
particolare e con tutta la prudenza politica - potrebbe avere l’interesse e la capacità
di catturare.
D. - “Siamo il 99 per cento” è stato lo slogan scelto dai manifestanti
proprio per sottolineare la spinta sociale dal basso contro il sistema della finanza.
Oggi, secondo lei, sono ancora il 99 per cento o c’è il rischio che quella percentuale
simbolica sia scesa?
R. - Quella percentuale simbolica era sparata un po’ troppo
forte sin dall’inizio, ma diamola pure per buona. Certamente a distanza di tempo si
è consolidato parecchio del messaggio, però non si può dire che si è consolidata anche
la percentuale.
D. - Rispetto alla società americana, invece, il movimento
“Occupy Wall Street”, ha rilanciato un po’ quello che è alla base e cioè la partecipazione
popolare alla società: è riuscita a raggiungere almeno questo obiettivo?
R.
- Secondo me sì. Questo è un dato molto positivo, sul quale - in tempi non rapidissimi
- se sono bravi, potranno costruire qualche cosa. Questo credo, però, che sia un effetto
che c’è stato e che in America, in qualche modo, si sente. Basta parlare un po’ con
la gente e respirare l’aria per capire che è tutto un po’ diverso.
Una denuncia
forte, insomma, quella proposta dalla società americana, stanca delle continue ondate
speculative e del sistema finanziario. Ma da parte sua, il mondo della finanza ha
imparato qualcosa da quella protesta o tutto è rimasto invariato? Salvatore Sabatino
ha girato la domanda all’economista Angelo Baglioni, esperto di economia
americana:
R. - Qualcosa
si sta facendo, soprattutto a livello di regolamentazione: quindi più che le banche
e i banchieri, sono i regolatori, i governi che stanno cercando di fare qualcosa.
Tutto mi sembra che si muova piuttosto lentamente sia negli Stati Uniti che anche
in Europa. Le proposte di regolamentazione non mancano, ma è molto lenta la fase di
applicazione sia dei nuovi coefficienti di capitale, sia delle norme americane, come
la Dodd-Frank Law. La risposta da questo punto di vista è piuttosto deludente.
D.
- Rispetto all’economia americana, un movimento del genere cosa vuol dire?
R.
- Vuol dire che, naturalmente, c’è una grossa insoddisfazione dell’opinione pubblica
rispetto al mondo della finanza. Come sappiamo, effettivamente, il mondo della finanza
- spesso peraltro condizionato anche dai politici - è stato all’origine della bolla
dei mutui subprime e quindi a valle della crisi finanziaria. Credo che un fattore
che irrita molto l’opinione pubblica sia anche quello della remunerazione dei manager,
sulla quale non è stato fatto pressoché nulla! Assistiamo ancora a remunerazioni a
livelli - oserei dire - scandalosi, anche quando le cose vanno male per una singola
banca e purtroppo su questo non è stato fatto quasi niente.
D. - Quello fu
un movimento ed è un movimento che parte dal basso, con delle richieste concrete da
parte della popolazione e dei manifestanti. A distanza di un anno, secondo lei, ha
ancora un senso protestare?
R. - Il problema delle proteste è che spesso hanno
delle argomentazioni, come dire, un po’ superficiali: si agitano, senza far troppe
distinzioni, contro tutto il mondo delle banche e della finanza, come se fosse possibile
- in qualche maniera - sopprimere le banche o renderle tutte pubbliche o farle fallire.
C’è un sentimento di vendetta cui ovviamente non bisogna dar retta e che non bisogna
assecondare. Quello che bisognerebbe fare, naturalmente, è regolare meglio gli intermediari,
far sì che non prendano troppi rischi fondamentalmente, limitare i rischi che si prendono
e poi - come dicevo prima - limitare un po’ la possibilità per i manager di ottenere
remunerazioni assolutamente molto e troppo fuori linea rispetto a quelle di un dipendente
normale.
D. - Insomma far avvicinare il mondo della finanza al mondo reale,
quello della gente comune…
R. - Sì, questo senz’altro e soprattutto limitare
i rischi, in modo che si riduca la probabilità che si ripetano fenomeni come quelli
che sono successi negli ultimi 3 o 4 anni, facendo, però, le cose seriamente, facendo
le regole che devono essere fatte.