L'ex terrorista Balducchi: avevamo deciso di abbandonare la lotta armata e Martini
ci ascoltò
Memorabile fu la consegna delle armi da parte dei terroristi delle Brigate Rosse all’arcivescovado
di Milano il 13 giugno del 1984. Qualche giorno prima, il 27 maggio, Ernesto Balducchi,
accusato di banda armata, dal carcere di San Vittore aveva scritto al cardinale Martini
per chiedere l’intervento della Chiesa in una sorta di mediazione per la ripresa del
dialogo con lo Stato. Alessandro Guarasci lo ha intervistato:
R. – Abbiamo
perso un grande riferimento culturale. L’attenzione al problema della giustizia nel
mondo: questa era la cosa che anche per la mia esperienza è stata importante.
D.
– Perché per quel gesto così importante sceglieste proprio il cardinal Martini?
R.
– Avevamo seguito un suo interevento a un convegno – mi pare del 1983 – sulla dimensione
sociale del peccato: illuminava un po’ l’aspetto sociale, la dimensione sociale del
peccato e quindi il suo legame con l’ingiustizia, fondamentalmente. Allora scrissi
una lettera a Martini. Mi rispose – non me l’aspettavo. E a quel punto ho incominciato
a mettere a fuoco quello che avrebbe potuto essere un dialogo anche concreto.
D.
– Quanto ha cambiato in molti di voi la visione della società, quell’incontro con
il cardinale Martini?
R. – Noi avevamo già maturato un giudizio negativo sull’esperienza
della lotta armata, però ci trovavamo di fronte un muro abbastanza compatto di opinione
che non era disponibile a qualsiasi forma di dialogo, e quindi ad accettare anche
questo giudizio critico e questa “uscita” ideologica dal campo della lotta armata.
Parlare con qualcuno – e di fatto, lui venne anche a Natale del ’83 a San Vittore
– ci ha confortato in questo. Devo dire che poi ogni volta che lui toccava quegli
argomenti, e che la cosa veniva riportata dalla stampa, notavamo che le nostre istanze
erano ascoltate, erano recepite insomma.
D. – La Chiesa – in quel caso, la
Chiesa milanese – era una interlocutrice “credibile” per una sorta di riconciliazione
all’interno del Paese?
R. – Per noi, era l’unica sponda che avevamo e a cui
potevamo accedere. Il resto erano le Procure della Repubblica, che però esigevano
nomi, cognomi, dati e fatti, per poi accedere alla cosiddetta legge dei pentiti. Ma
non era questo che a noi interessava.