Giornata internazionale degli scomparsi, oltre 14 mila nei Balcani. Il card. Puljjc:
servono fiducia e riconciliazione
Ricordare le decine di migliaia di persone vittime di sparizioni forzate, fare pressione
sui governi affinché non abbandonino le indagini. E’ questo il senso dell’odierna
Giornata internazionale degli scomparsi, istituita dalle Nazioni Unite nel 2010. Soltanto
nei Paesi della ex Jugoslavia – denuncia Amnesty International in un Rapporto – mancano
all’appello oltre 14 mila persone, quasi la metà del totale degli scomparsi nel decennio
di conflitti iniziato nel 1991. “Le vittime delle sparizioni forzate nei Paesi della
ex Jugoslavia – si legge nel Rapporto – appartengono a tutti i gruppi etnici. Sono
civili e soldati, donne e uomini, bambine e bambini.” E i loro familiari sono ancora
in attesa di verità e giustizia. La scrittrice ElviraMujcic è una di
loro. Nata in Bosnia Erzegovina, e fuggita in Italia durante la guerra, nel genocidio
dell’11 luglio del 1992 ha perso alcuni dei suoi cari. FrancescaSabatinelli
l’ha intervistata:
R. – Vengo da
Srebrenica. La mia storia è legata a questo, perché sono cresciuta lì e da lì sono
andata via a causa della guerra, lasciandoci la maggior parte della mia famiglia.
Abbiamo ritrovato pochi di loro, perché purtroppo il genocidio di Srebrenica è stato
soprattutto nei confronti degli uomini, anche se non esattamente uomini, visto che
si trattava di ragazzini dai 12 anni in su. Per cui, la mia vita ha avuto questo punto
di rottura: tra quello che è successo a Srebrenica e quello che poi è venuto dopo,
che ha cambiato totalmente nella mia vita, perché io non sono più tornata a vivere
lì.
D. – E come tantissimi altri bosniaci, anche tu hai perso persone care...
R.
–Sì, tantissimi parenti. I più stretti: mio padre e mio zio. Mio zio è stato ritrovato
sei anni fa, mentre mio padre non è mai stato ritrovato. Ovviamente, sono stati ritrovati
i resti di mio zio.
D. – La giustizia bosniaca ha cercato di far luce circa
la sorte di queste persone?
R. – C’è un tribunale in Bosnia incaricato di processare
i criminali di guerra minori. I criminali di guerra come Mladić, Karadžić, sono processati
dal Tribunale dell’Aja (Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia ndr).
Poi ci sono le migliaia e migliaia di persone che hanno eseguito i massacri. C’è quindi
un tribunale in Bosnia. Il fatto è che esiste un grosso problema di memoria, forse
perché si tratta di un conflitto ancora troppo vicino e perché non c’è stata una reale
elaborazione di quello che è successo. Quindi la verità, purtroppo, non riesce a venire
a galla, perché c’è ancora una sorta di discussione su quale sia la verità. Essendo
la Bosnia composta da bosniaci, musulmani, serbi e croati, ovviamente ognuno racconta
la sua versione della storia. E’ quindi molto difficile andare a cercare una verità
e avere una giustizia, quando non viene nemmeno riconosciuto il fatto.
D. –
Voi familiari delle vittime siete quindi consapevoli che sarà quasi impossibile conoscere
la verità…
R. – La maggior parte di noi lo sa che le persone scomparse a Srebrenica
in quell’11 luglio sono comunque nelle fosse comuni, si sa che c’è stato un massacro.
A livello storico è ancora molto difficile far sì che venga riconosciuto, perché c’è
chi dice che a Srebrenica non sono scomparse 8 mila e più persone, ma ne sono scomparse
molte meno. C’è chi non vuole utilizzare il termine genocidio. Quindi, si sta giocando
in modo un poco burocratico su questioni che avrebbero avuto bisogno di un altro tipo
di corso: che avrebbero avuto bisogno, molto probabilmente, di una rielaborazione
a livello sociale proprio in Bosnia, tra le persone. Si doveva riuscire a ricostruire
questa guerra attraverso sia le vittime che i carnefici. E questo purtroppo non è
avvenuto, perché tutti si sono trincerati nelle proprie convinzioni, nel proprio vittimismo.
Per questo è molto difficile, secondo me, una verità. Bisognerebbe che tutti ammettessero
qualcosa per riuscire a ricomporre questa società, altrimenti in Bosnia sarà davvero
difficile, visto che continuiamo a vivere insieme e tuttavia divisi da questo conflitto,
che ha creato un muro enorme di odio, di paura, di integralismi religiosi piuttosto
che politici.
D. – Cosa ricordi di quella guerra, 20 anni fa?
R. – Io
avevo 12 anni quando è iniziata la guerra, ero una bambina alla quale si nascondeva
quasi tutto. Mi ricordo il fermento, mio padre ci diceva che dovevamo andare via per
due settimane, perché stavano semplicemente succedendo dei contrasti, che era tutto
dovuto al fatto che c’era la transizione, perché Tito era morto e la Jugoslavia si
stava disfacendo. In realtà, la guerra io l’ho vissuta in un modo molto meno grave
rispetto a quello che poteva essere, per esempio, per mia madre. Ho avuto la vera
consapevolezza di cosa stesse accadendo quando ho iniziato a perdere i miei cari,
quando ho capito che non saremo più tornati a vivere a Srebrenica, quando siamo andati
via dalla Jugoslavia e siamo venuti in Italia e siamo diventati profughi. Con quello
ho iniziato ad avere la consapevolezza che c’era una vera guerra.
L’iter dei
processi, dunque, si scontra con una serie di ostacoli e difficoltà, come sottolinea
al microfono di Amedeo Lomonaco l’arcivescovo di Sarayevo, cardinaleVinko Puljic:
R. – Non è facile
fare un processo. Qualche volta, la politica fa più della legge. E’ molto importante
che ci sia una situazione stabile, dove si viva insieme con la stessa legge, che custodisca
il popolo nei suoi diritti umani e nella sua dignità.
D. – Amnesty International
denuncia che i governi di Croazia, Bosnia Erzegovina, ex Repubblica di Macedonia,
Montenegro, Serbia, Kosovo sono venuti meno all’obbligo legale internazionale di indagare
sui casi di sparizioni forzate. E i Tribunali agiscono con lentezza. Come far emergere
quelle verità?
R. – Posso riferirmi solo alla Bosnia Erzegovina, dove il Tribunale
lavora e dove ci sono tanti processi. Bisogna trovare il luogo in cui sono sepolti
i morti e individuare i responsabili di questi crimini.
D. – Come sta cambiando,
se sta cambiando, quell’odio profondo che purtroppo ha portato alla guerra? Ci sono
dei segni di speranza, dalle sofferenze si arriva a qualcosa - speriamo - di positivo?
R.
– Questo è obbligatorio per tutti. Io guardo al mio Paese, la Bosnia Erzegovina, dove
è necessario, come prima cosa, costruire uno Stato in cui tutti siano uguali. Poi,
dare una prospettiva, avere fiducia l’uno nell’altro, perché oggi c’è ancora un clima
negativo. Siamo diversi, ma non nel peccato.
D. – Guardando in particolare
alla Bosnia Erzegovina, come può contribuire la Chiesa per far luce su questi casi
di sparizione forzata?
R. – La Chiesa crea un clima per la riconciliazione,
per il perdono e la fiducia. Ma per quanto riguarda la giustizia, è lo Stato che deve
lavorare.