2012-08-23 07:10:23

Infuria la guerra a Damasco. Scontri sunniti-alawiti in Libano: 12 morti. L'Onu: evitare il contagio


Avvertimento alla Siria da parte di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. In un colloquio telefonico, ieri sera, tra Obama, Cameron e Hollande è stato ribadito che, in caso di impiego di armi chimiche da parte di Damasco, è ipotizzabile un intervento. Dichiarazioni che arrivano al termine di una giornata pesante sul terreno. La capitale Damasco è stata messa a ferro e fuoco, secondo i ribelli le forze di Assad avrebbero rastrellato numerosi quartieri. E l’Onu ha lanciato un appello affinché la comunità internazionale si impegni per evitare che la violenza si sposti anche in Libano dove da tre giorni sono in corso scontri tra sunniti e alawiti: 12 i morti. La cronaca nel servizio di Marina Calculli:RealAudioMP3


La Francia ha dunque annunciato di aver inviato ai ribelli “mezzi non letali, strumenti di comunicazione e di difesa” su richiesta del Consiglio Nazionale Siriano. Su quest’ultimo punto, Benedetta Capelli ha sentito il prof. Luigi Bonanate, docente di Relazioni internazionali all'Università di Torino: RealAudioMP3


R. - Gli inglesi fanno trapelare l’idea che loro danno una mano, i francesi adesso fanno questa operazione che non riesco a capire veramente. O meglio, non dovremmo riuscire a capire perché devono muoversi in questo modo individualistico e sparso. Questa storia era già successa con la Libia. Qui si sta parlando di una decina di migliaia di morti, una cosa spaventosa, e noi stiamo al solito a giocare con queste cose. Aggiungerei un aspetto che fa accapponare la pelle. Il presidente Obama ha detto: se quelli usano i gas, noi ci arrabbiamo. Io credo che in certi momenti noi occidentali abbiamo una sorta di presunzione folle, di insensato pregiudizio sul fatto che noi siamo più bravi, più intelligenti, più furbi. Ma cosa sono i gas, le armi di quel tipo? Sono cose che servono per uccidere esattamente come le pistole e i nostri fucili, è la stessa cosa. In guerra si è sempre ucciso.
D. - Quello che sembra abbastanza evidente è che in Siria, visto anche come è andata a finire la missione Onu, la diplomazia internazionale stia miseramente fallendo. Quale può essere una via d’uscita?
R. - Il problema è questo. La politica internazionale non vive a giorni pari e dispari, cioè ogni tanto c’è un problema e allora lo si affronta. Sono due anni che viviamo in questa sindrome della "primavera araba": possibile che nessuno avesse pensato che la Tunisia era vicina all’Egitto, l’Egitto era vicino alla Libia, la Libia è vicina alla Siria, la Siria è vicina al Libano e tutti quanti sono vicini all’Iraq? Oggi, alla domanda cosa possa fare la diplomazia, rispondo che la diplomazia è fallita o forse può fare qualcosa, non so. Nessuno sa dare risposte. Dovevamo cominciare a preparaci per tempo, invece di blandire Assad come abbiamo fatto per 5-6-7 anni consecutivamente, pensando che era l’unico che poteva tenere a bada l’Iran - che poi è un’altra sciocchezza perché con l’Iran si tratta per conto proprio, non per interposta persona. Adesso è difficilissimo risolvere il problema, andava gestito nel tempo.
D. - Si parla con insistenza delle dimissioni del presidente per favorire poi un processo di dialogo nazionale. E’ veramente questa l’unica soluzione?
R. - Il punto è che Assad non darà mai le dimissioni. Se avesse avuto un atteggiamento diplomatico, addirittura democratico, di fronte al fatto che una grande parte della sua popolazione, anche se non la maggioranza, non lo voleva più, avrebbe detto: se il problema sono io, me ne vado. Assad non l’ha fatto all’inizio, quando poi forse sarebbe stato anche più elegante, non lo farà certamente oggi.
D. - Secondo lei, c’è un pericolo di "alqaedizzazione" dell'opposizione siriana?
R. - Oggettivamente parlando, no. Chi sa più chi è Al Qaeda? E’ diventata un’etichetta sotto la quale passa qualsiasi cosa. Ci possono essere combattenti, ci possono essere mercenari, ci possono essere pazzi invasati… Sotto Al Qaeda è passato di tutto. Il terrorismo va sconfitto togliendogli l’acqua in cui nuotare: noi dobbiamo impedire che situazioni di crisi brutale, violenta, ingestibile, incontrollabile come questa, offrano il terreno per organizzazioni come Al Qaeda o per riprendersi o svilupparsi.

Ad operare in Siria da più qualche mese è l'ong Medici senza frontiere. Nel nord, in una zona controllata dai ribelli, ma tenuta segreta per motivi di sicurezza, ha installato senza l’autorizzazione governativa, un ospedale per gli interventi d’urgenza. Vi accedono in centinaia, ma non basta, dicono. Gabriella Ceraso ha raccolto la testimonianza di Dounia Dekhili medico, vice responsabile delle operazioni d’urgenza di MSF, appena tornata dalla Siria: RealAudioMP3

R. - Si tratta di un ospedale che è stato installato sul territorio siriano da circa due mesi. Si trova in una casa disabitata di due piani. Abbiamo potuto organizzare una sorta di pronto soccorso attrezzato di una sala per la terapia intensiva per i pazienti che arrivano in condizioni veramente gravi. Nella parte operativa abbiamo una zona per la degenza ospedaliera e una sala di rianimazione. Possiamo ospitare da un minimo di 12 a un massimo di 30 letti. L’equipe è composta da 7 medici internazionali e da una cinquantina di siriani. Dall’inizio dell’attività abbiamo accolto più di 300 pazienti che richiedevano cure urgenti, ed effettuato 150 operazioni chirurgiche.
D. - Da dove provengono i feriti?
R. - Provengono un po’ da tutte le parti, da Hama, da Aleppo.. A volte i pazienti impiegano circa due giorni per arrivare alla nostra struttura. Le lascio immaginare in che condizioni arrivano. Il tragitto è spesso difficile, perché non possono passare per le vie principali, spesso devono evitare le linee di frontiera, o per i luoghi dove ci sono conflitti tra i ribelli e i militari siriani. Purtroppo alcuni arrivano troppo tardi….
D. - Sono soldati, ribelli, civili…Quante donne e bambini arrivano da voi?
R. - Arrivano pazienti di ogni tipo. Dei 300 pazienti che abbiamo qui, il 20 per cento ha meno di venti anni e il dieci per cento hanno meno di dieci anni. Le donne sono tra il cinque e il dieci percento. Il novanta percento dei pazienti che seguiamo, sono persone vittime della violenza della guerra, ferite da colpi di arma da fuoco o esplosioni provenienti dei carri armati e dai bombardamenti.
D. - Si parla sempre degli insorti. Ma secondo lei, sono dei giovani siriani o degli stranieri?

R. - Per noi è difficile identificarli perché quando le persone arrivano qui non chiediamo se siano dei combattenti o meno. La cosa che più ci preoccupa è il fatto che hanno bisogno di cure. Abbiamo anche dei bambini feriti e questo a dimostrazione del fatto che la guerra non risparmia la popolazione civile.
D. - Voi avete la possibilità di sapere se le armi utilizzate sono armi chimiche?
R. - Per quanto riguarda la nostra struttura fino ad ora non abbiamo avuto tracce dell’utilizzo di armi chimiche.
D. - Il governo non ha autorizzato il vostro ospedale. Voi avete contatti con il regime?

R. - Abbiamo più volte presentato domanda per avere le autorizzazioni necessarie per poter fare il nostro lavoro. Fino ad ora sono rifiutate.
D. - Secondo voi il regime siriano perseguita i feriti che provengono dal vostro ospedale o da altre strutture simili?
R. – Dall’inizio dei disordini in Siria, spesso ci è stato chiesto questo. Ci si è resi conto attraverso le testimonianze di un gruppo di medici siriani che lavoravano all’interno, e dai pazienti che andavano a rifugiarsi in Giordania e che arrivavano alla nostra struttura -perché abbiamo un ospedale chirurgico in Giordania che esiste dal 2006- del problema della mancanza di accesso alle cure per i feriti; questo non perché le strutture non esistono e perché il sistema medico siriano è molto efficiente, lo si sa da sempre, ma perché c’è veramente una difficoltà all’accesso alle cure per i feriti.
D. - Molte ong hanno affermato che la situazione in Siria è disastrosa. Quale la cosa più urgente da fare secondo voi?
R. – Prima di tutto, ci tengo a precisare che noi abbiamo potuto installare questa struttura che deve restare piccola per ragioni di sicurezza e perché siamo in una piccola porzione di territorio dove è stato possibile per noi sistemarci; questo non ci dà che visione parziale di tutto quello che può succedere su tutto il territorio. Sappiamo bene che i 300 pazienti che abbiamo potuto curare sono già un grande passo per noi, ma sappiamo bene che è poco rispetto ai bisogni reali. Bisogna reiterare l’appello alle parti in conflitto affinché autorizzino - e questo è essenziale- l’accesso agli organismi umanitari in un contesto di un conflitto come questo.
D. - Durante questi due mesi di lavoro, la situazione è peggiorata nel nord della Siria?
R. – Penso che sia peggiorato soltanto in alcuni luoghi… Oggi l’attenzione è soprattutto sul nord perché c’è la battaglia di Aleppo, e i giornalisti, più o meno, riescono ad avere accesso in quelle zone; si hanno invece poche informazioni concrete su quello che accade da altre parti, come nella parte dell’estremo est, a Damasco, a Homs. Immaginiamo che la situazione sia brutta ovunque.
D. - C’è un clima di paura?
R. – Sì, questo sentimento ricorre spesso nelle testimonianze dei rifugiati che arrivano sempre più numerosi soprattutto dai Paesi limitrofi. Abbiamo incontrato molti giovani rifugiati in Giordania, e sempre più spesso le famiglie intere sono state costrette a spostarsi più volte, partendo per esempio da Homs o Damasco, e che ora, si trovano nella condizione di dover lasciare Damasco o addirittura il Paese. Questo è un chiaro segno del degrado umanitario e di sicurezza per la popolazione civile.







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