Infuria la guerra a Damasco. Scontri sunniti-alawiti in Libano: 12 morti. L'Onu: evitare
il contagio
Avvertimento alla Siria da parte di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. In un colloquio
telefonico, ieri sera, tra Obama, Cameron e Hollande è stato ribadito che, in caso
di impiego di armi chimiche da parte di Damasco, è ipotizzabile un intervento. Dichiarazioni
che arrivano al termine di una giornata pesante sul terreno. La capitale Damasco è
stata messa a ferro e fuoco, secondo i ribelli le forze di Assad avrebbero rastrellato
numerosi quartieri. E l’Onu ha lanciato un appello affinché la comunità internazionale
si impegni per evitare che la violenza si sposti anche in Libano dove da tre giorni
sono in corso scontri tra sunniti e alawiti: 12 i morti. La cronaca nel servizio di
Marina Calculli:
La Francia
ha dunque annunciato di aver inviato ai ribelli “mezzi non letali, strumenti di comunicazione
e di difesa” su richiesta del Consiglio Nazionale Siriano. Su quest’ultimo punto,
Benedetta Capelli ha sentito il prof. Luigi Bonanate, docente di Relazioni
internazionali all'Università di Torino:
R.
- Gli inglesi fanno trapelare l’idea che loro danno una mano, i francesi adesso fanno
questa operazione che non riesco a capire veramente. O meglio, non dovremmo riuscire
a capire perché devono muoversi in questo modo individualistico e sparso. Questa storia
era già successa con la Libia. Qui si sta parlando di una decina di migliaia di morti,
una cosa spaventosa, e noi stiamo al solito a giocare con queste cose. Aggiungerei
un aspetto che fa accapponare la pelle. Il presidente Obama ha detto: se quelli usano
i gas, noi ci arrabbiamo. Io credo che in certi momenti noi occidentali abbiamo una
sorta di presunzione folle, di insensato pregiudizio sul fatto che noi siamo più bravi,
più intelligenti, più furbi. Ma cosa sono i gas, le armi di quel tipo? Sono cose che
servono per uccidere esattamente come le pistole e i nostri fucili, è la stessa cosa.
In guerra si è sempre ucciso. D. - Quello che sembra abbastanza evidente è che
in Siria, visto anche come è andata a finire la missione Onu, la diplomazia internazionale
stia miseramente fallendo. Quale può essere una via d’uscita? R. - Il problema
è questo. La politica internazionale non vive a giorni pari e dispari, cioè ogni tanto
c’è un problema e allora lo si affronta. Sono due anni che viviamo in questa sindrome
della "primavera araba": possibile che nessuno avesse pensato che la Tunisia era vicina
all’Egitto, l’Egitto era vicino alla Libia, la Libia è vicina alla Siria, la Siria
è vicina al Libano e tutti quanti sono vicini all’Iraq? Oggi, alla domanda cosa possa
fare la diplomazia, rispondo che la diplomazia è fallita o forse può fare qualcosa,
non so. Nessuno sa dare risposte. Dovevamo cominciare a preparaci per tempo, invece
di blandire Assad come abbiamo fatto per 5-6-7 anni consecutivamente, pensando che
era l’unico che poteva tenere a bada l’Iran - che poi è un’altra sciocchezza perché
con l’Iran si tratta per conto proprio, non per interposta persona. Adesso è difficilissimo
risolvere il problema, andava gestito nel tempo. D. - Si parla con insistenza delle
dimissioni del presidente per favorire poi un processo di dialogo nazionale. E’ veramente
questa l’unica soluzione? R. - Il punto è che Assad non darà mai le dimissioni.
Se avesse avuto un atteggiamento diplomatico, addirittura democratico, di fronte al
fatto che una grande parte della sua popolazione, anche se non la maggioranza, non
lo voleva più, avrebbe detto: se il problema sono io, me ne vado. Assad non l’ha fatto
all’inizio, quando poi forse sarebbe stato anche più elegante, non lo farà certamente
oggi. D. - Secondo lei, c’è un pericolo di "alqaedizzazione" dell'opposizione siriana? R.
- Oggettivamente parlando, no. Chi sa più chi è Al Qaeda? E’ diventata un’etichetta
sotto la quale passa qualsiasi cosa. Ci possono essere combattenti, ci possono essere
mercenari, ci possono essere pazzi invasati… Sotto Al Qaeda è passato di tutto. Il
terrorismo va sconfitto togliendogli l’acqua in cui nuotare: noi dobbiamo impedire
che situazioni di crisi brutale, violenta, ingestibile, incontrollabile come questa,
offrano il terreno per organizzazioni come Al Qaeda o per riprendersi o svilupparsi.
Ad
operare in Siria da più qualche mese è l'ong Medici senza frontiere. Nel nord, in
una zona controllata dai ribelli, ma tenuta segreta per motivi di sicurezza, ha installato
senza l’autorizzazione governativa, un ospedale per gli interventi d’urgenza. Vi accedono
in centinaia, ma non basta, dicono. Gabriella Ceraso ha raccolto la testimonianza
di Dounia Dekhili medico, vice responsabile delle operazioni d’urgenza di MSF,
appena tornata dalla Siria:
R. - Si tratta
di un ospedale che è stato installato sul territorio siriano da circa due mesi. Si
trova in una casa disabitata di due piani. Abbiamo potuto organizzare una sorta di
pronto soccorso attrezzato di una sala per la terapia intensivaper i pazienti
che arrivano in condizioni veramente gravi. Nella parte operativa abbiamo una zona
per la degenza ospedaliera e una sala di rianimazione. Possiamo ospitare da un minimo
di 12 a un massimo di 30 letti. L’equipe è composta da 7 medici internazionali e da
una cinquantina di siriani. Dall’inizio dell’attività abbiamo accolto più di 300 pazienti
che richiedevano cure urgenti, ed effettuato 150 operazioni chirurgiche. D. - Da
dove provengono i feriti? R. - Provengono un po’ da tutte le parti, da Hama, da
Aleppo.. A volte i pazienti impiegano circa due giorni per arrivare alla nostra struttura.
Le lascio immaginare in che condizioni arrivano. Il tragitto è spesso difficile, perché
non possono passare per le vie principali, spesso devono evitare le linee di frontiera,
o per i luoghi dove ci sono conflitti tra i ribelli e i militari siriani. Purtroppo
alcuni arrivano troppo tardi…. D. - Sono soldati, ribelli, civili…Quante donne
e bambini arrivano da voi? R. - Arrivano pazienti di ogni tipo. Dei 300 pazienti
che abbiamo qui, il 20 per cento ha meno di venti anni e il dieci per cento hanno
meno di dieci anni. Le donne sono tra il cinque e il dieci percento. Il novanta percento
dei pazienti che seguiamo, sono persone vittime della violenza della guerra, ferite
da colpi di arma da fuoco o esplosioni provenienti dei carri armati e dai bombardamenti. D.
- Si parla sempre degli insorti. Ma secondo lei, sono dei giovani siriani o degli
stranieri?
R. - Per noi è difficile identificarli perché quando le persone
arrivano qui non chiediamo se siano dei combattenti o meno. La cosa che più ci preoccupa
è il fatto che hanno bisogno di cure. Abbiamo anche dei bambini feriti e questo a
dimostrazione del fatto che la guerra non risparmia la popolazione civile. D. -
Voi avete la possibilità di sapere se le armi utilizzate sono armi chimiche? R.
- Per quanto riguarda la nostra struttura fino ad ora non abbiamo avuto tracce dell’utilizzo
di armi chimiche. D. - Il governo non ha autorizzato il vostro ospedale. Voi avete
contatti con il regime?
R. - Abbiamo più volte presentato domanda per avere
le autorizzazioni necessarie per poter fare il nostro lavoro. Fino ad ora sono rifiutate. D.
- Secondo voi il regime siriano perseguita i feriti che provengono dal vostro ospedale
o da altre strutture simili? R. – Dall’inizio dei disordini in Siria, spesso ci
è stato chiesto questo. Ci si è resi conto attraverso le testimonianze di un gruppo
dimedici siriani che lavoravano all’interno, e dai pazienti che andavano a
rifugiarsi in Giordania e che arrivavano alla nostra struttura -perché abbiamo un
ospedale chirurgico in Giordania che esiste dal 2006- del problema della mancanza
di accesso alle cure per i feriti; questo non perché le strutture non esistono e perché
il sistema medico siriano è molto efficiente, lo si sa da sempre, ma perché c’è veramente
una difficoltà all’accesso alle cure per i feriti. D. - Molte ong hanno affermato
che la situazione in Siria è disastrosa. Quale la cosa più urgente da fare secondo
voi? R. – Prima di tutto, ci tengo a precisare che noi abbiamo potuto installare
questa struttura che deve restare piccola per ragioni di sicurezza e perché siamo
in una piccola porzione di territorio dove è stato possibile per noi sistemarci; questo
non ci dà che visione parziale di tutto quello che può succedere su tutto il territorio.
Sappiamo bene che i 300 pazienti che abbiamo potuto curare sono già un grande passo
per noi, ma sappiamo bene che è poco rispetto ai bisogni reali. Bisogna reiterare
l’appello alle parti in conflitto affinché autorizzino - e questo è essenziale- l’accesso
agli organismi umanitari in un contesto di un conflitto come questo. D. - Durante
questi due mesi di lavoro, la situazione è peggiorata nel nord della Siria? R.
– Penso che sia peggiorato soltanto in alcuni luoghi… Oggi l’attenzione è soprattutto
sul nord perché c’è la battaglia di Aleppo, e i giornalisti, più o meno, riescono
ad avere accesso in quelle zone; si hanno invece poche informazioni concrete su quello
che accade da altre parti, come nella parte dell’estremo est, a Damasco, a Homs. Immaginiamo
che la situazione sia brutta ovunque. D. - C’è un clima di paura? R. – Sì, questo
sentimento ricorre spesso nelle testimonianze dei rifugiati che arrivano sempre più
numerosi soprattutto dai Paesi limitrofi.Abbiamo incontrato molti giovani
rifugiati in Giordania, e sempre più spesso le famiglie intere sono state costrette
a spostarsi più volte, partendo per esempio da Homs o Damasco, e che ora, si trovano
nella condizione di dover lasciare Damasco o addirittura il Paese. Questo è un chiaro
segno del degrado umanitario e di sicurezza per la popolazione civile.