Siria, uccisa giornalista giapponese. Reporter senza frontiere: Damasco "oscura" i
media
Tra i giornalisti inviati in Siria si conta una nuova vittima. Si tratta di Mika Yamamoto,
cronista giapponese di 45 anni, uccisa ieri ad Aleppo in circostanze ancora da chiarire.
A riferirlo è stata la tv panaraba al Jazira, che ha citato attivisti antiregime,
secondi i quali la giornalista sarebbe stata uccisa dal fuoco dei militari di Damasco.
“Le condizioni degli operatori dei media col regime di Assad non sono mai state facili”,
spiega al microfono di Gabriella Ceraso il vice presidente di Reporter senza
frontiere-Italia, Domenico Affinito, vicepresidente di Reporter senza frontiere
Italia:
R. - Risulta
che dal marzo 2011 ad oggi, siano morti 33 giornalisti, più di 30 in carcere, e una
situazione sul territorio che è sempre più deteriorata. I giornalisti vengono visti
come parte in causa del conflitto. Abbiamo cominciato con l’inizio della primavera
del 2011, con una fortissima repressione da parte del regime verso i giornalisti locali,
che venivano considerati come non aderenti alla linea del regime. Ultimamente, abbiamo
assistito a violenze e rapimenti a danno invece di giornalisti filo-governativi da
parte delle forze ribelli.
D. - All’inizio c’era in realtà un black out sulla
Siria. Questo forse fa riferimento alla situazione esistente in realtà molto prima.
Mi sembra che Bashar Al Assad sia uno dei cosiddetti “predatori della libertà di stampa”...
R.
- In Siria non c’era né libertà di espressione, né libertà di stampa. Diamo un dato:
la Siria ha concesso al regime siriano 365 visti ai giornalisti stranieri dal marzo
2011 ad oggi: pochissimi. All’inizio non sapevamo nulla di ciò che stava succedendo
in Siria, come non sappiamo nulla di cosa stava succedendo in Birmania all’inizio,
o quello che succede all’interno della Corea del Nord. Poi, in Siria è successo che
la gente si è rivoltata, quindi pian piano si sono aperti degli spiragli, il regime
sta scricchiolando. Però, ripetiamolo ancora una volta, le violenze da condannare.
Anche se un giornalista prende una posizione netta a favore di una parte o di un’altra,
deve potersi esprimere. Noi sappiamo che alcuni giornalisti lo fanno magari perché
sono coinvolti anche nelle dinamiche di un regime, oppure perché vengono pagati per
farlo: ci sono tante motivazioni, però questo non può assolutamente giustificare una
violenza.
D. - Forse, c’è anche un altro fenomeno che si registra su quanto
sta accadendo in Siria. Si lavora tanto da fuori per cercare contatti attraverso altri
mezzi di comunicazione...
R. - Questo è un fenomeno che accade non solo con
la Siria, cioè utilizzare i giornalisti locali per farsi dare delle informazioni e
ricostruire la situazione interna. Questo funziona, ma ovviamente bisogna sempre verificare
le fonti. L’anno scorso abbiamo lanciato un appello per chiedere ai media occidentali
di tutelare maggiormente le loro fonti locali, perché il fatto che un giornalista,
uno stringer siriano, lavorasse per un giornale straniero, era considerata
una cosa molto grave da parte del regime, e subiva una serie di conseguenze altrettanto
gravi.
D. - In base alla sua esperienza, dopo la caduta di un regime che cosa
succede alla stampa? Si ha la possibilità di far nascere un’organizzazione?
R.
- Sia in Iraq, sia in Afghanistan, alla caduta del regime c’è stata una moltiplicazione
di testate, di tv, di radio... Di solito questo succede: c’è una ricchezza, una vivacità,
subito dopo la fine di un regime, che non è ovviamente paragonabile con la situazione
precedente. Speriamo possa succedere anche in Siria.