2012-08-21 15:11:45

Siria, uccisa giornalista giapponese. Reporter senza frontiere: Damasco "oscura" i media


Tra i giornalisti inviati in Siria si conta una nuova vittima. Si tratta di Mika Yamamoto, cronista giapponese di 45 anni, uccisa ieri ad Aleppo in circostanze ancora da chiarire. A riferirlo è stata la tv panaraba al Jazira, che ha citato attivisti antiregime, secondi i quali la giornalista sarebbe stata uccisa dal fuoco dei militari di Damasco. “Le condizioni degli operatori dei media col regime di Assad non sono mai state facili”, spiega al microfono di Gabriella Ceraso il vice presidente di Reporter senza frontiere-Italia, Domenico Affinito, vicepresidente di Reporter senza frontiere Italia:RealAudioMP3

R. - Risulta che dal marzo 2011 ad oggi, siano morti 33 giornalisti, più di 30 in carcere, e una situazione sul territorio che è sempre più deteriorata. I giornalisti vengono visti come parte in causa del conflitto. Abbiamo cominciato con l’inizio della primavera del 2011, con una fortissima repressione da parte del regime verso i giornalisti locali, che venivano considerati come non aderenti alla linea del regime. Ultimamente, abbiamo assistito a violenze e rapimenti a danno invece di giornalisti filo-governativi da parte delle forze ribelli.

D. - All’inizio c’era in realtà un black out sulla Siria. Questo forse fa riferimento alla situazione esistente in realtà molto prima. Mi sembra che Bashar Al Assad sia uno dei cosiddetti “predatori della libertà di stampa”...

R. - In Siria non c’era né libertà di espressione, né libertà di stampa. Diamo un dato: la Siria ha concesso al regime siriano 365 visti ai giornalisti stranieri dal marzo 2011 ad oggi: pochissimi. All’inizio non sapevamo nulla di ciò che stava succedendo in Siria, come non sappiamo nulla di cosa stava succedendo in Birmania all’inizio, o quello che succede all’interno della Corea del Nord. Poi, in Siria è successo che la gente si è rivoltata, quindi pian piano si sono aperti degli spiragli, il regime sta scricchiolando. Però, ripetiamolo ancora una volta, le violenze da condannare. Anche se un giornalista prende una posizione netta a favore di una parte o di un’altra, deve potersi esprimere. Noi sappiamo che alcuni giornalisti lo fanno magari perché sono coinvolti anche nelle dinamiche di un regime, oppure perché vengono pagati per farlo: ci sono tante motivazioni, però questo non può assolutamente giustificare una violenza.

D. - Forse, c’è anche un altro fenomeno che si registra su quanto sta accadendo in Siria. Si lavora tanto da fuori per cercare contatti attraverso altri mezzi di comunicazione...

R. - Questo è un fenomeno che accade non solo con la Siria, cioè utilizzare i giornalisti locali per farsi dare delle informazioni e ricostruire la situazione interna. Questo funziona, ma ovviamente bisogna sempre verificare le fonti. L’anno scorso abbiamo lanciato un appello per chiedere ai media occidentali di tutelare maggiormente le loro fonti locali, perché il fatto che un giornalista, uno stringer siriano, lavorasse per un giornale straniero, era considerata una cosa molto grave da parte del regime, e subiva una serie di conseguenze altrettanto gravi.

D. - In base alla sua esperienza, dopo la caduta di un regime che cosa succede alla stampa? Si ha la possibilità di far nascere un’organizzazione?

R. - Sia in Iraq, sia in Afghanistan, alla caduta del regime c’è stata una moltiplicazione di testate, di tv, di radio... Di solito questo succede: c’è una ricchezza, una vivacità, subito dopo la fine di un regime, che non è ovviamente paragonabile con la situazione precedente. Speriamo possa succedere anche in Siria.







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