Nuove violenze in Siria dopo le dimissioni del mediatore Kofi Annan
Dopo la rinuncia al ruolo di mediatore per la Siria da parte di Kofi Annan, oggi l’Assemblea
generale dell’Onu è chiamata a votare una risoluzione presentata dai Paesi arabi che
ridisegni gli impegni della comunità internazionale e fermare così le violenze nel
Paese. Gli Stati Uniti, dopo le dimissioni di Annan, hanno criticato apertamente la
politica di Russia e Cina in Consiglio di Sicurezza mentre l’Iran ha affermato che
“alcuni Paesi hanno volutamente ostacolato il piano di pace del mediatore dell'Onu
e dell'Unione Africana”. Anche oggi non sono mancati gli scontri: si combatte ad Aleppo,
ad Hama l’attacco dell’esercito di Damasco ha provocato oltre 50 morti. Almeno 20
civili, tra cui due bambini, sono stati uccisi dai tiri di mortaio esplosi contro
il campo di profughi palestinesi di Yarmouk, vicino la capitale. Violenti combattimenti
la notte scorsa anche nella regione di Hula. Ma che significato politico ha la rinuncia
all’incarico da parte di Kofi Annan? Al microfono di Benedetta Capelli risponde
il prof. Alessandro Corneli, docente di Relazioni internazionali alla Luiss
di Roma:
R. - Il significato
politico sembra abbastanza chiaro: una dichiarazione di impotenza di fronte al tentativo
di proseguire e ottenere un risultato importante alle Nazioni Unite. Annan ha capito
che non ha l’appoggio di tutte le grandi potenze: l’Onu rimane paralizzata e quindi
la missione non ha scopo.
D. - Annan ha puntato il dito non solo su Assad,
ma anche sulle divisioni interne del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Ma allora come
uscire da questa crisi? R. - Purtroppo se ne uscirà attraverso il verdetto del
campo di battaglia. Le diverse parti in Siria, che avrebbero potuto dare una mano
ad Annan e quindi vincere anche le resistenze di alcune delle maggiori potenze che
sono presenti nel Consiglio di Sicurezza, non hanno scelto questa strada: hanno continuato
a combattersi e si sono rafforzate. Il presidente Assad non ha voluto accettare anche
le proposte più ragionevoli, come erano venute da parte della Lega Araba, lui non
vuole una soluzione di compromesso e probabilmente nella sua mente non si rende conto
del perché dovrebbe mollare il potere, che ha - diciamo così - ereditato. Quindi il
verdetto rimane al campo di battaglia, dove le armi affluiscono - come sempre - da
tutte le parti e quindi il conflitto tende ormai a degenerare in guerra civile piuttosto
pericolosa e che comunque attira su di sé tutte le attenzioni e le energie. Probabilmente
questo è l’unico modo per non estenderla a un conflitto più generale.
D. -
Dunque una pietra tombale sulla diplomazia internazionale?
R. - Non sarebbe
la prima: il cimitero è piuttosto nutrito di fallimenti! Questo perché viviamo in
un periodo in cui i singoli Stati cercano di riaffermare ciascuno il proprio ruolo
e non c’è una tendenza a limitarsi e quindi a dare più spazio agli organismi internazionali:
almeno sul piano politico!
D. - Queste dimissioni, secondo lei, riaprono il
dibattito sull’efficacia dell’Onu e quindi su un eventuale riforma?
R. - Sì,
può farlo, ma soltanto a livello accademico: non si sa che cosa dire e allora si parla
della crisi dell’Onu. Solo a questo livello, ma non è che si risolve nulla.