Sudan, ancora morti in Darfur e Nilo Blu. Nei prossimi giorni Hillary Clinton a Juba
Nella regione sudanese del Darfur, otto persone sono rimaste uccise ieri nel corso
di una protesta contro il "caro-vita" e il governo centrale. Secondo attivisti locali,
le forze dell’ordine avrebbero sparato sulla folla durante uno scontro con i manifestanti.
Intanto l’Onu ha rinnovato di un anno il mandato della missione di pace nella regione,
riducendo però il numero dei militari di 3mila unità. Sono stati invece 3 i morti
nei bombardamenti governativi sui villaggi del Nilo Blu: lo comunicano i guerriglieri
dell’Splm-North, che secondo Khartoum ricevono aiuti dal Sud Sudan. E proprio il Sud
Sudan sarà tra le prossime tappe del viaggio in Africa di Hillary Clinton, iniziato
ieri. Davide Maggiore ha chiesto a Irene Panozzo, giornalista esperta
dell’area, quali sono gli scopi della visita del segretario di Stato americano a Juba:
R. - Credo che
uno dei principali obiettivi sia quello di cercare di convincere il Sud Sudan ad avere
un atteggiamento meno radicale al tavolo negoziale. In realtà, però bisognerebbe cercare
di convincere anche il governo di Khartoum a fare lo stesso. I negoziati sono in corso
in questi giorni ad Addis Abeba, perché in base ad una risoluzione del Consiglio di
Sicurezza della Nazioni Unite del 2 maggio scorso, era stato dato tempo tre mesi,
e quindi fino al 2 agosto, ai due governi per trovare una soluzione. In realtà, ormai
siamo quasi alla scadenza, e la soluzione sembra essere ancora molto lontana. Non
sono stati risolti i problemi che riguardano la demarcazione del confine, non è stata
risolta la questione che riguarda il petrolio - in particolare quanto il Sud Sudan
deve pagare per utilizzare le infrastrutture del Nord -, e non sono state risolte
tutte le altre questioni che riguardano la sicurezza, gli eserciti...
D. -
È però realistico pensare ad uno sforzo diplomatico americano di mediazione che abbia
successo?
R. - È piuttosto difficile in realtà, proprio perché il governo degli
Stati Uniti non ha più tantissime possibilità di convincere il Sudan del Nord ad aver
un atteggiamento più vicino a quello che dovrebbe essere necessario per un buon risultato
del negoziato. Quello che potrebbe fare Hillary Clinton, è cercare di convincere il
Sud Sudan ad evitare posizioni particolarmente estreme. Ad esempio, nei mesi scorsi,
il Sud Sudan ha oltrepassato il confine con il Nord, di fatto occupando per alcuni
giorni uno dei campi petroliferi che rimangono a Nord del confine tra i due Paesi,
in quello che internazionalmente è riconosciuto come territorio del Nord Sudan. Errori
di questo genere sicuramente non possono essere graditi a Washington, come non è molto
gradita la decisione del governo del Sud Sudan di bloccare completamente la produzione
petrolifera negli ultimi sei mesi, rischiando la bancarotta dello Stato.
D.
- Quanto è importante il petrolio sud-sudanese nell’ottica della politica americana?
R.
- È sicuramente importante. Soprattutto perché è una delle chiavi di volta della stabilizzazione
dei rapporti tra Nord e Sud Sudan. Dopo di che, è abbastanza probabile che ci siano
interessi di varie compagnie statunitensi sul petrolio all’interno dei confini sud-sudanesi.
Però credo, che in questo momento, la priorità sia soprattutto quella di cercare di
scongiurare un ulteriore peggioramento dei rapporti tra le due capitali.
D.
- Passiamo alla situazione umanitaria, in particolare al problema dei profughi dovuti
alla guerra, e dei rimpatriati dal Nord Sudan: che impatto hanno avuto questi gruppi
su una situazione umanitaria del Paese che è già difficile?
R. - Sicuramente
l’impatto maggiore l’hanno avuto i profughi: cioè tutti quei cittadini sudanesi degli
Stati del Kordofan Meridionale e del Nilo Azzurro, perché sono arrivati in due Stati
del Sud Sudan, gli Stati di Unity e dell’Alto Nilo, che sono forse i due Stati più
fragili, soprattutto perché strategicamente molto importanti. Dal punto di vista ambientale
sono aree che durante le stagioni delle piogge sono completamente inondate, per cui
diventa anche molto difficile, per le organizzazioni internazionali, portare aiuti
e raggiungere i campi che sono stati creati.