Somalia: violenti combattimenti a pochi giorni dalle presidenziali
Violenti combattimenti in Somalia tra miliziani islamici al Shabaab e le forze regolari
sono avvenuti ieri nel sud del Paese. Almeno 26 combattenti islamici sono stati uccisi.
Intanto a Mogadiscio due violente esplosioni hanno provocato, la notte scorsa, la
morte di due civili e il ferimento di almeno sette persone. Obiettivo dell’attentato,
basi militari del governo somalo nel centro della capitale. In questo clima ad agosto
si dovrebbero tenere le elezioni presidenziali. Sulla situazione Giancarlo La Vella
ha intervistato Silvio Tessari, responsabile dei programmi per il Corno d’Africa
di Caritas italiana:
R. – Non bisogna
farsi troppe illusioni; la Somalia è un Paese che vive da vent’anni nell’anarchia.
Ma, in un certo senso, c’è anche una certa speranza che le cose vadano un po’ meglio.
Quello che noi possiamo fare è continuare anche in una situazione molto precaria,
com’è di fatto oggi, a promuovere piccole attività umanitarie: dalla formazione all’igiene,
al microcredito, al ripristino dell’agricoltura, ma sempre con molta prudenza, con
molta discrezione, proprio per non creare occasioni di pericolo e di conflitto, perché
questa è la tragica realtà.
D. – Soluzioni umanitarie e soluzioni politiche.
In questo momento qual è la priorità?
R. – Bisognerebbe agire su entrambi i
fronti, sia sul piano politico che sul piano umanitario. Il fatto che la situazione
sia stata finora in un vicolo cieco è proprio perché o si faceva una cosa o l’altra,
ma mai le due contemporaneamente, perché è chiaro che, se non c’è una situazione politica
accettabile, le azioni umanitarie sono molto pericolose, sono molto difficili da realizzare.
Sono due cose che si sostengono a vicenda e tutto il sistema traballa sia politicamente,
sia dal punto di vista dell’assistenza umanitaria, proprio perché non c’è questa comunità
di intenti.
D . – Sempre più grave appare la situazione dei civili. Quali notizie
vi giungono dalla Somalia e da tutto il Corno d’Africa?
R. – C’è una certa
rassegnazione da parte delle popolazioni civili. C’è un piccolo segno, secondo me,
che potrebbe essere abbastanza incoraggiante: sta aumentando la presa di posizione
di cittadini somali emigrati all’estero che si stanno rendendo conto della situazione
in patria e cercano di aiutare loro stessi, tramite loro organizzazioni, la situazione
locale. E’ chiaro che ci sono alcune centinaia di migliaia di persone che sono sfollate
interne, cioè non hanno la possibilità di avere un posto tranquillo e comunque rimangono
ancora alcune centinaia di migliaia di persone rifugiate all’estero, in particolare
in Kenya e in Etiopia. E’ una situazione ancora fluida, non molto diversa rispetto
a qualche mese fa, se non, per fortuna, la situazione della siccità che è leggermente
migliorata.
D. – In tutto questo c’è poi la mina vagante dei miliziani fondamentalisti
Al Shebaab che più di una volta hanno impedito l’accesso dei convogli umanitari all’interno
dei territori da loro controllati. Si tratta di un ostacolo in più in una situazione
già drammatica?
R. – Noi, come Caritas italiana, tramite le organizzazioni
riconosciute dalla Caritas Somalia, siamo riusciti a infiltrarci in piccoli villaggi,
semplicemente trattando con gli Shebaab locali. Che cosa significa trattare con gli
Shebaab? Non tutti sono estremisti terroristi e per situazioni di non grandi capitali
da investire, si può trattare con loro - e le nostre organizzazioni lo hanno fatto
– e, senza pagare nessuna tangente, hanno consentito la realizzazione di alcuni piccoli
interventi. Certo, ci vuole la pazienza di riuscire a tessere relazioni e avere contatti,
anche nelle zone sotto il controllo degli Shebaab, piccole azioni che si possono fare
anche nei loro territori.