Siria: ad Aleppo si combatte senza sosta. Gli Usa: "Temiamo un massacro"
Sempre in primo piano la situazione in Siria. E’ Aleppo ormai il campo di battaglia
tra il regime e l’opposizione. Gli Stati Uniti hanno detto di temere un massacro nella
città. Secondo i ribelli poi solo ieri sono state un centinaio le vittime della violenza
in diverse parti del Paese. Intanto la Lega Araba e il premier turco Erdogan ipotizzano
un’uscita di scena di Assad entro breve tempo. Il servizio di Marina Calculli:
Circa duemila
soldati di Assad sono stati concentrati ad Aleppo, la seconda città della Siria, dove
i ribelli e i lealisti si giocano una partita da entrambi percepita come un punto
di svolta. Anche alla periferia di Damasco non sono però mancati gli affronti tra
le due parti mentre molte manifestazioni civili sono esplose in diversi quartieri.
Gli Stati Uniti temono un nuovo massacro anche se Washington ribadisce che non ci
sarà un intervento militare esterno. Si mobilita nel frattempo anche l’Unesco che
invita a preservare le bellezze archeologiche di Aleppo. Nonostante l’offensiva, però,
all’esterno si moltiplicano le aspettative di una transizione. Per Erdogan Assad sarebbe
sul punto di andarsene mentre il generale disertore Manaf Tlaas dice di “non immaginare
una Siria con l’attuale presidente”. Ex amico di Bashar, Tlaas lo ha però anche sollevato
da parte della responsabilità. “Si è fatto mal consigliare dai servizi d sicurezza”.
Ha detto Tlaas. “Non è solo lui che ha deciso la repressione ma l’intero regime”.
Continua intanto il flusso drammatico di rifugiati nei paesi vicini. Per gestire i
flussi l’UE ha stanziato complessivamente 83milioni di euro.
Un appello per
una via d’uscita pacifica alla crisi è venuto ieri dall’arcivescovo cattolico greco-melkita
di Aleppo, mons. Jean-Clément Jeanbart, a conclusione di un breve vertice con gli
altri vescovi cattolici tenutosi nel suo arcivescovado. Stessa richiesta è venuta
ieri dalle principali forze di opposizione al regime di Assad, riunite a Roma per
iniziativa della Comunità di Sant'Egidio. Ascoltiamo le parole di mons. Jeanbart raccolte
dalla collega francese, Manuella Affejee:
R. – Ce que
nous demandons, si l’Occident, si les chrétiens en Occident, si les … Quello che
noi chiediamo, se l’Occidente, i cristiani d’Occidente, se i Paesi di buona volontà
vogliono aiutarci, è che essi spingano per il dialogo e per l’intesa, per arrivare
ad un compromesso. In altri termini, che sostengano la missione Annan con tutte le
loro forze, che tentino di fare in modo che gli scontri finiscano e al contempo non
incoraggino la violenza e l’odio, quanto piuttosto tentino di richiamare alla calma
e alla ragione. Ecco, questo soprattutto: credo che i Paesi europei, la Nato, gli
altri Paesi arabi collegati possano ottenere questo facilmente. Come la Russia, dall’altro
canto, anche altri Paesi possono fare pressione sul governo siriano affinché faccia
qualcosa in questo senso. Ma ciò non potrà accadere se non ci sarà un cessate-il-fuoco
con la sospensione delle violenze da tutte e due le parti.
E preoccupa l’emergenza
umanitaria in Siria. Migliaia di persone sono in fuga nei Paesi confinati come Libano,
Iraq, Giordania e Turchia dove il governo ha deciso di aprire le frontiere solo ai
profughi. L’Unione Europea intanto ha stanziato 83 milioni di euro per fronteggiare
l’emergenza. Laura Boldrini, portavoce dell'Alto Commissariato Onu per i rifugiati,
ai nostri microfoni fa il punto della situazione:
R. – E’ difficile
avere una fotografia precisa di quanti siriani siano fuggiti dal loro Paese e questo
perché non tutti si registrano con l’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni
Unite per i rifugiati. Le stime che noi abbiamo, quindi, non comprendono tutte le
persone in fuga. A noi risulta che siano circa 150 mila le persone fuori dalla Siria,
ma a questi vanno ad aggiungersi un milione e mezzo di sfollati interni, le persone
cioè costrette a lasciare le proprie case, ma che non hanno attraversato la frontiera:
si sono quindi spostati da una città all’altra all’interno della Siria.
D.
– Giordania, Libano, Iraq e Turchia sono i Paesi che stanno accogliendo i profughi
e, tra l’altro, nei giorni scorsi la Turchia ha chiuso le frontiere ma ha aperto dei
corridoi per i profughi. E’ un segnale, anche questo, importante e di sensibilità…
R.
– A oggi dobbiamo dire sì e noi siamo molto grati ai Paesi confinanti perché hanno
tutti tenuto le frontiere aperte. Per quanto riguarda la Turchia, abbiamo avuto ampie
rassicurazioni che si tratta di una chiusura per i mezzi commerciali. Devo inoltre
ricordare che c’è una situazione ancora più critica, quella che riguarda i rifugiati
iracheni che vivevano in Siria. Oggi, gli stessi iracheni stanno ritornando nel loro
Paese di origine, ne sono già rientrati almeno 10 mila. A Damasco, poi, c’è ora una
situazione in cui anche civili fuggiti da altre città – tipo Homs – e approdati nella
capitale, dopo i bombardamenti sono dovuti scappare di nuovo. Ci sono decine di scuole
che sono state allestite come dormitori, così come nei parchi pubblici sono stati
messi degli alloggi di fortuna. In Turchia, invece, l’accoglienza è più nei campi:
ce ne sono oltre 10 allestiti dalle attività turche. La situazione è quindi più gestita
a livello centrale, ma in altri Paesi – come la Giordania, il Libano – è tutto molto
più diffuso e sulle spalle anche dei privati, degli amici e dei parenti di queste
persone.
D. – Nei giorni scorsi, l’Unione Europea ha stanziato 20 milioni
di euro per i profughi siriani: ma quali sono i bisogni e soprattutto come è possibile
aiutare?
R. – Dobbiamo dire che siamo preoccupati anche per la situazione economica
e finanziaria: all’appello che abbiamo fatto di 192 milioni di dollari, solo il 26
per cento dei fondi sono stati stanziati. Una cifra veramente bassissima, che non
consente di mantenere neanche il livello di assistenza che in certi casi è totale:
dai viveri all’alloggio, all’acqua, alle cure mediche. In alcuni casi, c’è solo l’assistenza
umanitaria fornita dalle agenzie internazionali: se manca questo per la gente è difficile
farcela. Quello che stupisce è che, data la gravità della situazione e il fatto che
non si trovi una via per sbloccarla – e va sbloccata a livello politico – neanche
a livello umanitario c’è una risposta capace di sopperire almeno ai bisogni primari.