"Vescovo di libertà e speranza": il ricordo della sorella di mons. Mazzolari a un
anno dalla sua scomparsa
Il Sud Sudan ha ricordato ieri mons. Cesare Mazzolari, vescovo di Rumbek. Nella Cattedrale
della Sacra Famiglia è stata celebrata in mattinata una Messa per ricordare la sua
scomparsa, avvenuta il 16 luglio 2011 a causa di un malore che lo aveva colto mentre
celebrava l’Eucaristia. Per trent’anni, mons. Mazzolari ha dedicato la sua vita ai
sudanesi che lo hanno amato moltissimo. Quale l’eredità lasciata dal missionario comboniano?
Benedetta Capelli lo ha chiesto alla sorella, Marianna Mazzolari:
R. – Senz’altro,
ha lasciato una grande eredità: aveva grandi progetti per la sua gente. Ne aveva iniziato
uno molto importante e quello ce lo ha lasciato in eredità e noi sentiamo fortemente
il desiderio di portarlo a termine: si tratta della scuola di Cuiebet. L’eredità che
ci ha lasciato personalmente, a me come sorella e alla famiglia, è senz’altro un qualcosa
di spirituale, perché come sacerdote sapeva darmi molto. Per noi, per la nostra famiglia
è stata ed è una grande mancanza. Sentiamo un grande vuoto…
D. – Quello che
emerge di mons. Mazzolari è una completa identificazione con la storia del Sud Sudan:
in fondo se ne è andato quanto questo Paese ha raggiunto l’indipendenza…
R.
– Esatto. Lui aveva questa grande ansia di far conoscere la situazione del Sud Sudan.
Era felicissimo e provava grande gioia, perché la sua gente stava arrivando all’indipendenza.
La gente era felice e di riflesso lo era anche lui.
D. – Molti lo hanno definito
un vescovo di speranza e di libertà: è una definizione che lei sente appropriata per
suo fratello?
R. – Erano parole che lui diceva sempre, perché parlava sempre
di speranza e di libertà per il suo popolo. Queste erano parole che pronunciava tanto.
Io ho avuto modo di andare tre volte in Sudan e ho dei ricordi veramente emozionanti
con la sua gente. Quando sapevano che ero la sorella, mi tributavano un tale ringraziamento:
tutti mi abbracciavano, con gioia. Sentivano "Mazzolari" e solo all'udirlo gioivano,
saltano, si mettevano a ballare, mi facevano festa. Questo per me aveva un grande
significato. Una manifestazione così non la si fa a tutti… Per loro rappresentava
senz’altro una speranza e questo loro me lo dicevano. Sono stata in Sudan anche ai
funerali e ho avuto cosi tante manifestazioni: io non capivo la loro lingua, loro
non capivano la mia, ma con i gesti sapevano dirmi il loro grande dispiacere. Sono
state tante le donne che sono venute ad abbracciarmi; mi facevano segno che i loro
occhi piangevano e il loro cuore era triste. Con l’espressione mi dicevano tutte queste
cose. Lui ha lavorato tanto per le donne: anche questa scuola – che era il suo grande
progetto – è nata dalle donne, che hanno manifestato il desiderio di istruzione per
i loro figli. Avevano capito che l’istruzione poteva dar loro la possibilità di conoscere,
di portare avanti il loro Paese, che è così martoriato e che ha tanto bisogno di risorgere.
I funerali sono stati, per me, una cosa grandissima. Lui era così umile in tutte le
sue cose che credo, vedendo tutto quello che è stato fatto, direbbe: no, non ho tutto
questo merito! Ha dedicato i suoi ultimi 30 anni di vita ad un Paese che voleva aiutare
e questo la gente lo ha compreso: è stata vicino a lui e hanno cercato insieme qualcosa
per far risorgere questo Paese.
D. – Mons. Mazzolari le raccontava mai di
avere delle difficoltà, invece, in questo Paese?
R. – Lui raccontava, ma non
diceva molto. Sa che io tante cose le ho saputo dopo: certi fatti e certe situazioni
le abbiamo conosciute soltanto dopo. Io ho ricevuto tantissima posta. Lui in famiglia
non diceva molto, probabilmente per lascarci tranquilli. Quando era con noi, ci stava
anche tanto poco, vivevamo il pranzo, la sua Messa celebrata in casa era per noi una
cosa veramente speciale. Lo abbiamo sempre chiamato padre Cesare, mai Cesare: anche
noi fratelli, noi famiglia, perché sin da quando siamo nati la nostra mamma ci ha
insegnato il rispetto verso di lui. Ci manca tantissimo… Era dolcissimo: nelle ricorrenze
ci chiamava, ai compleanni ci mandava dei biglietti bellissimi, con delle immagini
e delle parole che erano solo sue e che ci toccavano. Gli davo informazioni delle
persone che venivano a mancare dalla nostra famiglia e lui scriveva delle lettere
bellissime da consegnare ad ogni famiglia. Quando veniva a mancare qualcuno della
nostra famiglia, si aspettava un suo biglietto: era veramente un biglietto di consolazione.
D.
– Come vorrebbe che suo fratello fra dieci anni fosse ricordato?
R. – In modo
molto semplice. In questi giorni ci sono tanti avvenimenti, ma la cosa a cui tengo
veramente di più è la messa nella Chiesa dei Comboniani, dove lui è entrato quando
era ancora un ragazzino, aveva solo nove anni. Io ci tengo particolarmente a questa
Messa, perché per me è il momento più sentito e in cui me lo sento più vicino.