Congo: caschi blu pronti a difendere Goma dai ribelli. Don Gavioli: in città serve
cibo
Tensione nella Repubblica Democratica del Congo. Di fronte al pericolo di un'ulteriore
avanzata verso Goma dei ribelli del gruppo M23, le Nazioni Unite sono pronte a difendere
in armi il capoluogo della provincia orientale del Nord Kivu, e stanno dunque dispiegando
nuovamente intorno alla città i caschi blu della Monuc, la loro Missione nel Paese.
I ribelli dal canto loro smentiscono un loro avanzamento verso la città. Salvatore
Sabatino:
L’Onu da una
parte, il gruppo ribelle M23 dall’altra. In mezzo Goma, città verso cui starebbero
marciando i rivoltosi, che però smentiscono e ripiegano sulle montagne, in attesa
– e a dirlo è proprio il loro capo – che si possa aprire un dialogo con il governo
di Kinshasa. A protezione della città sono già stati schierati i caschi blu, per volere
dello stesso Ban Ki-moon che ieri, tra l’altro, ha contattato telefonicamente sia
il presidente dell'ex Zaire, Joseph Kabila, sia l'omologo rwandese, Paul Kagame, sollecitando
entrambi a "fare tutto il possibile per disinnescare la tensione e porre fine alla
crisi". Il Rwanda, che ha sempre smentito, è accusato di alleanza con l'M23: un folto
e preparato gruppo di ex militari che hanno disertato, prendendo il nome dal 23 marzo
di tre anni fa, quando fu firmato un accordo di pace di fatto mai rispettato. Guidati
dal generale rinnegato Bosco Ntaganda, ricercato per crimini di guerra e contro l'umanità
dal Tribunale penale internazionale dell'Aja, nelle scorse settimane avevano invaso
alcune località nei pressi di Goma, poi liberate dell’intervento delle truppe regolari.
“La
situazione nel Paese è difficile serve un vero sforzo internazionale per la Pace”:
così da Goma parla don Piero Gavioli, direttore del Centro giovanile Don Bosco
NGangi, raggiunto telefonicamente da Massimiliano Menichetti:
R. – La situazione
a Goma per ora è calma: la guerra si svolge a 70-80 km a nord. Molta gente fugge dall’interno
per venire in città. C’è un campo profughi all’entrata di Goma dove tanti trovano
rifugio. Molti vengono a chiedere aiuti anche nel nostro Centro.
D. – Quanti
sono i profughi e da dove vengono queste persone?
R. – Il gruppo più numeroso
è quello composto da persone fuggite, a metà maggio circa, dalla regione del Masisi,
quando è cominciata la ribellione. Poi, i conflitti si sono spostati più a Nord, al
confine con l’Uganda. Adesso qui ci sono almeno 15-20 mila persone e nessuna struttura,
né governativa né appartenente ad ong, che se ne possa occupare in maniera risoluta.
Anche il Programma alimentare mondiale ha finito le scorte.
D. – La popolazione
come vive questa situazione e voi cosa state facendo?
R. – Noi abbiamo in carico
i bambini malnutriti. C’è molto scoraggiamento tra la gente e paura, perché dicono
che il governo non fa molto per risolvere la questione. Forse ha attivato vie diplomatiche,
però manca il soccorso concreto, non ci sono ancora iniziative visibili. Anche le
truppe della Monuc, che dovrebbero frammettersi fra i belligeranti, ci sembrano più
osservatori che soldati che intervengono per favorire la pace. C’è molta sfiducia,
c’è molto scoraggiamento.
D. – A Rutshuru, alcune fonti hanno parlato di campi
degli sfollati bruciati...
R. – A Rutshuru non c’erano campi di sfollati,
ci sono quartieri: in base alle notizie di cui a sono a conoscenza, queste strutture
non sono state toccate. La gente è partita verso l’interno, verso la foresta perché
ha avuto paura. Ma ora sta rientrando anche sollecitata dai ribelli dell’M23, che
secondo le testimonianze che ho raccolto da alcuni sacerdoti, stanno invitando le
persone a riprendere le abitudini di sempre e a rientrare nelle case, senza alcuna
minaccia.
D. – Ma cosa vogliono i ribelli?
R. – Questo è uno dei segreti
che nessuno conosce. Non si capisce bene quale sia l’intesa che hanno con il Rwanda
e anche i rapporti con lo Stato congolese, perché ricordiamo che sono ammutinati dell’esercito
congolese. Cosa vogliono? Che si rispettino gli accordi di pace presi il 23 marzo
del 2009. Si chiamano M23 proprio per indicare quelle promesse che, sotengono, non
sono state mantenute. Poi, ci sono interessi economici come lo sfruttamento delle
miniere e tutta la frontiera con l’Uganda che è una sorgente di guadagno…
D.
– Come si stabilizza il Paese?
R. – Servirebbe un impegno veramente internazionale
per la pace non solo nel nostro Paese, ma nei Grandi Laghi. Questa conflittualità
è molto legata a quello che capita in Uganda e in Rwanda, in misura minore anche in
Burundi e, forse, in parte anche con il Sud Sudan. Quindi serve una volontà forte
a livello internazionale per la pace, una nuova conferenza di pace, che generi però
impegni effettivi. Abbiamo, infatti, l’impressione che ci siano accordi scritti sulla
carta, che rimangono sulla carta.
D. – Vuole lanciare un appello? Che cosa
vi serve al Centro?
R. – Al Centro abbiamo 72 piccoli orfani, di qualche settimana
fino ai due anni, e abbiamo bisogno di latte. Il latte ci costa caro: spendiamo attualmente
2300 dollari al mese. Abbiamo bisogno anche di cibo per i malnutriti, cui distribuiamo
farina di granoturco, di soia e di sorgo, e poi il cibo di base, cioè polenta e fagioli.
D.
– Per chi volesse aiutarvi, come può fare?
R. – La cosa migliore è passare
attraverso la ong che ci sostiene, che è il Vis, il Volontariato internazionale per
lo sviluppo.